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de gennaro gianni effdi Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari
Acquisita una nota riservata dello Sco, datata giugno '92, inviata al prefetto Rossi
Dalla creazione di una spaccatura all'interno di Cosa nostra “tra un'area moderata ed una più sanguinaria”, l'avviso dell'esistenza di una “fonte fiduciaria”, l'indicazione di un “interesse a creare il panico forse per costringere le istituzioni a trattare con Riina dopo l'ennesima autobomba”. Di questo si parla in una nota riservata dello Sco, firmata da Antonio Manganelli, inviata nel giugno 1993 al servizio centrale di Polizia criminale e successivamente trasmessa, nel luglio dello stesso anno, alla Dia. Il documento è stato oggi acquisito agli atti del processo trattativa Stato-mafia, consegnato durante l'esame dall'ex Capo della Dia, Gianni De Gennaro.
Una conferma ulteriore del fatto che prima degli attentati di Roma e Milano già vi era tra gli inquirenti il convincimento che dietro le stragi di maggio (già c'era stata la strage di via dei Georgofili a Firenze preceduta dal fallito attentato a Costanzo in via Fauro) vi fosse comunque una strategia da parte di Cosa nostra. “Questo appunto – ha detto De Gennaro - era indirizzato al direttore centrale polizia criminale che in quel tempo era il Prefetto Rossi, a firma del dott. Manganelli con un’annotazione del 27 luglio con riferimento ‘Colonnello Tomaselli’ (Antonino Tomaselli, ex capo del reparto operativo della Dia di Roma, ndr), firmato dal dott. Micalizio (Pippo Micalizio ex, capo della Dia, ndr), in cui già si riferisce ‘incontro con nota fonte informativa’, evidentemente era nota al Prefetto Rossi, non certamente a me, in cui si dice ad un certo punto: ‘i palermitani avrebbero interesse a creare panico forse per costringere le istituzioni a trattare con Riina dopo l’ennesima autobomba’. Di questo io ho avuto cognizione e su questo riferisco”.
In precedenza l'ex prefetto, oggi presidente di Finmeccanica, durante la deposizione fiume aveva risposto a diverse domande sulla nota della Dia, datata 10 agosto 1993, dove si informava l’allora ministro dell'Interno, Nicola Mancino, di come “un’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis” avrebbe potuto “rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”. Un documento eccezionale dove per la prima volta compare il termine “trattativa”, utilizzato per descrivere quello che stava accadendo nell'immediato post stragi. Erano passati pochi giorni dalle bombe di Roma e Milano, e si parlava di una strategia “per insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che in fondo potrebbe essere più conveniente una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di Cosa Nostra a condizioni in qualche modo più accettabili per Cosa Nostra”. de gennaro aula c ansaInoltre gli analisti della Dia nella nota aggiungevano: “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”. Se in passato De Gennaro aveva detto che “quella relazione non rappresentava un'ipotesi investigativa ma una serie di valutazioni e sentimenti comuni che raccoglievamo tra gli addetti ai lavori” senza ricordare chi l'aveva sviluppata, oggi, proprio la nota acquisita dello Sco chiarirebbe parte del mistero. “Io non so quando l’abbiamo ricevuta alla Dia questa nota – ha detto rispondendo al pm Nino Di Matteo - qui c’è la data del 27 luglio ’93 col riferimento al Col. Tomaselli, firmato Micalizio, con un timbro… del 4 giugno ’93. La nostra nota di agosto più volte ho cercato di far capire… ma ogni volta viene ricondotta alla mia persona… io ringrazio di questa attenzione, ma che andava agli Uffici… gli Uffici evidentemente hanno avuto cognizione…”. Se si esclude l'immediatezza degli attentati di Roma e Milano, con un primo Comitato per l'ordine e la sicurezza in cui si facevano le ipotesi più disparate sulla causale delle stragi, già dal 6 agosto, all'interno del Comitato istituito al Cesis, così come confermato in una relazione, si stava sviluppando l'idea di “una struttura progettuale e operativa con presenza della mafia e che presenta una intelligenza non solo mafiosa”. Quando poi vengono diffuse le note della Dia (10 agosto'93) e dello Sco (12 agosto '93) anche all'interno dei quel gruppo di lavoro iniziò a prevalere l'ipotesi della Dia. Tuttavia, secondo De Gennaro, il senso della parola “tacita trattativa” sarebbe da intendere come un “attacco allo Stato”. Eppure proprio l'ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, all'epoca Presidente della Camera, aveva evidenziato che quelle bombe del 1993 vennero percepite come un “ricatto allo Stato” in una sorta di “rapporto do ut des

La divisione interna di Cosa nostra
Altro passaggio chiave della nota dello Sco acquisita agli atti riguarda gli assetti interni di Cosa nostra. In quel documento lo Sco parla chiaramente della “fonte informativa che riferisce: in provincia di Palermo ci sarebbe una decisa spaccatura che potrebbe preludere a una guerra tra una fazione più moderata e una più sanguinaria”. Se da una parte è vero che non vengono fatti i nomi dei protagonisti di allora (Riina-Bagarella da una parte e Provenzano dall'altra) dall'altra viene confermata quell'indicazione che verrà riportata non solo da collaboratori di giustizia, ma persino dagli ex ministri Giovanni Conso (oggi deceduto) e Nicola Mancino che parlavano di fonte giornalistica riguardo all'esistenza di due fazioni all'interno di Cosa nostra.

La fuga di notizie
Durante la deposizione, inoltre, De Gennaro ha anche fatto riferimento ad una fuga di notizie che portò alla pubblicazione sulla stampa di parte del contenuto della nota della Dia del 10 agosto 1993”. “Fu pubblicata su Repubblica con uno o due articoli – ha ricordato l'ex prefetto - Era una nota che aveva una valenza di riservatezza soprattutto in ragione del fatto che erano ipotesi di lavoro destinate agli addetti ai lavori. Questa pubblicazione che non era integrale, ma era significativa, determinò la richiesta da parte della Commissione stragi di chiarimenti. Io fui chiamato dalla Commissione stragi il 15 settembre a dare conto e ragione del fatto che questa nota non fosse stata indirizzata alla Commissione stragi. Io spiegai quale fosse la valenza di questa nota che non aveva come interlocutori naturali destinatari le istituzioni parlamentari”. Poiché in un secondo momento la nota fu trasmessa alla Procura di Palermo secondo De Gennaro “è verosimile che la procura stessa ne avesse avuto cognizione attraverso questa fuga di notizie. Se ricordo bene era il 1 settembre la data di trasmissione alla Procura della Repubblica e quindi la fuga di notizie è antecedente ”. Un piccolo errore di collocazione temporale considerato che quell'articolo, a firma di Sandra Bonsanti, su Repubblica esce il 3 settembre 1993. Oltre a riportare ampi stralci della nota ed a parlare di “trattativa” il pezzo ri riaggancia anche ad un'intervista di Gianni De Gennaro rilasciata a La Stampa il giorno prima dal titolo eloquente “La mafia punta al golpe”. Diceva allora De Gennaro rispondendo a Francesco La Licata: “Io credo che Cosa Nostra abbia la possibilità di interloquire, di interferire, contrattare e contattare componenti criminali o politiche che possano tramare piani destabilizzanti per la nostra democrazia”.
Ovvero quello che stava concretamente accadendo in quei due anni di sangue.

L'anomala strage Borsellino e le altre componenti criminali
Di fronte alla Corte d'assise presieduta da Alfredo Montalto, De Gennaro ha spiegato che dopo la strage di Capaci si comprese, all'interno della Dia e non solo, che dall'omicidio Lima era iniziata una sorta di “escalation” da parte dell'organizzazione mafiosa. E sulla strage di via d'Amelio ha aggiunto: “La strage era quasi inaspettata secondo le dinamiche di Cosa nostra perché era parso quasi un boomerang… in fondo così come è scritto in quell’analisi, quella strage fece da acceleratore a misure repressive che vennero approvate e che invece stentavano a essere approvate. Fu sottolineata l’anomalia nella nostra analisi per un’organizzazione che mirava al massimo risultato con un minino danno. C’era una preoccupazione di una evoluzione dell’attività reattiva dell’organizzazione contro lo Stato. In riferimento a quella anomalia pensavamo ad una complicità di altre componenti criminali”. Evidentemente è mettendo in fila questi pezzi, ed aggiungendo quegli elementi investigativi che si erano aggiunti nel 1993 già dopo le stragi si è arrivati alla stesura della nota dove si indicava anche l'oggetto del do ut des” nel regime carcerario 41 bis.

L'imbarazzo
Eppure, durante l'audizione, vi è stato anche più di un momento di imbarazzo per l'ex prefetto. Dopo aver spiegato per ore quella che era la propria tesi sul carcere duro, e su come si fosse arrivati al convincimento che fosse quello, assieme ad altri “favori” normativi, l'oggetto dei desiderata di Cosa nostra, l'ex prefetto non ha saputo essere perfettamente convincente su un punto. Come evidenziato dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi durante l'esame, in una delle relazioni del Comitato istituito presso il Cesis, depositate ieri dall'avvocato Milio, si evidenziava un riferimento al regime carcerario. E' scritto nel documento: “Franco Di Maggio dice che è opportuno che il governo mantenga ferma la posizione sul 41bis… correlazione tra proroga 41bis e attentati del luglio’. Il capo della Polizia è d’accordo su questa osservazione, poi il direttore della Dia che non concorda sull’eventuale nesso tra attentati e 41bis in quanto la ritorsione inizia dopo il maxi processo”. Un “non” che, così come riportato, di fatto metterebbe in contrasto proprio lo stesso De Gennaro con l'analisi della Dia diffusa il 10 agosto. “Quel ‘non’ sarà un refuso” ha commentato subito l'ex prefetto. “Ero io il direttore della Dia… ma che possa aver detto di non poter ricondurre al 41bis… avrei detto 'ma anche'… Mi sembra che il resocontista è stato molto conciso… penso che come direttore della Dia non mi sia limitato a quelle frasi…anche perché quella seduta (stessa data del 10 agosto, ndr) non venne registrata”. Niente da fare, dunque, con il dubbio se si sia trattato di un errore o meno che resterà irrisolto.

Il “caso Arlacchi”
Altro momento di tensione, infine, vi è stato con le domande del pm Roberto Tartaglia in merito ai confronti tra lo stesso De Gennaro ed il professore Pino Arlacchi, nel ''92-'93 consulente della Dia. Arlacchi, ascoltato qualche anno fa dagli inquirenti, aveva dichiarato che “dopo le stragi ’93 si consolidò convinzione stragi valenza politica stato venire a patti – trattativa formulammo delle ipotesi, gruppo Contrada uno dei terminali della trattativa”. Inoltre in quei verbali Arlacchi sosteneva che assieme all'ex capo della Dia avesse formulato ipotesi di una trattativa con riferimento al Gruppo andreottiano e, in riferimento a Mori, “sospettavamo che vi fosse in atto un’azione di depotenziamento procura di Palermo… uscire indenne dalle indagini di Palermo”. Alla lettura di quegli stralci di verbale subito De Gennaro ha replicato: “Ce ne saranno stati di colloqui con Arlacchi ma era informale. Il professore Arlacchi ha un po’ interpretato il senso… sono sue interpretazioni. Può darsi che quell’ipotesi l’abbia formulata con me ma non risulta agli atti del mio ufficio…Per noi era un attacco della mafia alle istituzioni per disorientare l’opinione pubblica e costringere le istituzioni a recedere”. Nonostante la replica De Gennaro ha comunque confermato, così come aveva fatto a Caltanissetta durante la deposizione al Borsellino quater, che il suo ufficio si occupò anche di alcune indagini sulla famiglia Dell'Utri. Anche su questo aspetto Arlacchi aveva detto ai pm: “Ricordo che De Gennaro mi parlava di contatti ambigui tra Dell’Utri e Cosa nostra”. E l'ex prefetto, pungolato sul tema, ha risposto: “Se sono state risultanze investigative saranno state oggetto di discussione… ma non lo ricordo”. "Non ricordo". "Non so". "Sono passati tanti anni”. Il rifugio di tanti testimoni saliti sul pretorio in questo dibattimento così scomodo. Intanto la Procura, per vederci chiaro, ha chiesto alla Corte di poter aggiungere nell’elenco dei testimoni proprio il professore Pino Arlacchi. Un primo passo per capire chi, dei due, mente.

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