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graviano giuseppe e berlusconi c ansa e imagoeconomicadi Aaron Pettinari
Nelle motivazioni della sentenza Spatuzza ritenuto "attendibile". E tra Cosa nostra e 'Ndrangheta c'era un "interesse comune"

Era il 19 ottobre 2017 quando nell'aula bunker dell'Ucciardone la Corte d'Assise di Palermo ascolta le parole del boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, intercettato in carcere mesi prima assieme al compagno d'ora d'aria, Umberto Adinolfi: "Berlusca mi ha chiesto questa cortesia… per questo è stata l’urgenza…”.
Un'audio con dichiarazioni pesanti in cui il capomafia sembrerebbe voler attribuire a Berlusconi il ruolo di mandante delle stragi del 1992-1993.
Tanto che la procura di Firenze ha deciso di riaprire le indagini sui mandanti occulti delle stragi mafiose del 1993, che colpirono Firenze (in via dei Georgofili), Roma (chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e Milano (via Palestro) contro l'ex premier e l'ex senatore Marcello Dell'Utri (già condannato a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa).
Quel riferimento a “Berlusca” compare anche in altri punti della conversazione ma secondo il consulente della difesa, Indorato (contrariamente a quelli della Procura e della Corte, ndr), nella prima occasione la parola detta dal boss sarebbe “Bravissimo” mentre le altre due non vi sarebbero in quanto in quel tratto, a suo dire, il dialogo tra i due mafiosi sarebbe incomprensibile. Diversamente i periti della Corte e quelli dell'accusa confermano di sentire “Berlu” così come la parte “siccome iddu, le elezioni... rnari la Sicilia”.
I giudici spiegano che dopo l'ulteriore ascolto “è stato possibile percepire con sufficiente chiarezza la parola 'Berlusca'" e che nella versione ripulita del file audio, riascoltata dalla Corte presieduta da Alfredo Montalto, è stato fugato "qualsiasi dubbio": "V’è da dire - scrivono - che le tracce più ‘ripulite’ messe a disposizione dalla difesa dell’imputato Dell’Utri (…) ha tolto, poi, alla Corte, pur nella sua valutazione inevitabilmente soggettiva, qualsiasi dubbio sulla effettiva pronunzia della parola ‘Berlusca’ laddove sono chiaramente percepibili le vocali ‘e’ ed ‘u’ invece inesistenti nella parola ‘bravissimo’”. E poi ancora: “Anche la pronunzia del monosillabo ‘Bi’ trascritto dal perito e non già del diverso monosillabo ‘Mi’ trascritto dal consulente della difesa, questa volta, ancora nelle tracce ‘ripulite’ acquisite all’udienza del 14 dicembre 2017, è stato udito dalla Corte con sufficiente chiarezza non invece percepita nell’ascolto della precedente registrazione”.
Per quanto riguarda il secondo riferimento a "Berlusca" la Corte ritiene sia, diversamente, incomprensibile ma quel che appare certo è che nell'intercettazione del 10 aprile 2016, quella oggetto della diatriba, vi è il "cenno a incontri dei Graviano con Marcello Dell’Utri.

Bacchettata alla difesa
Non manca anche una "bacchettata" al consulente della difesa in quanto "appare singolare che su oltre 21 ore di registrazione il consulente non abbia concordato sulle uniche due, brevi frasi nelle quali viene nominato, dal Graviano, Berlusconi", tenuto conto, aggiungono i giudici, che il boss di Brancaccio si riferisce a Berlusconi, senza citarlo, anche in altre due occasioni come la sua visita sull’Etna (29 ottobre 2002) e in Bielorussia (30 novembre 2009, negli stessi giorni in cui era chiamato a testimoniare al processo Dell’Utri).
Tra le altre intercettazioni registrate e depositate al processo la difesa Dell'Utri non ha contestato neanche le parole dette dal boss di Brancaccio del 14 marzo 2017 "Graviano riprende il discorso accennato qualche ora prima riguardo a Berlusconi e all’ingratitudine di quest’ultimo. Graviano, peraltro, pur senza nominarlo (…) riferisce - prosegue la Corte - espressamente ad Adinolfi di avere conosciuto e incontrato Berlusconi e, in particolare, di essersi ‘seduti’ insieme e di avere, insieme, ‘mangiato e bevuto’, mettendo ancora in evidenza la doppiezza del personaggio nel contrasto tra le sue condotte private e quelle delle esternazioni pubbliche”. Per la Corte, dalle intercettazioni di Graviano si ricava tra l’altro “il conseguente risentimento nei confronti di Berlusconi, per non avere questi mantenuto i patti, espresso tra la speranza di potere ancora ottenere qualche beneficio e più o meno esplicite minacce di riferire, direttamente o indirettamente, i rapporti con lui avuti prima di essere arrestato nel gennaio 1994”.
Le valutazioni della corte sulle conversazioni tra Graviano ed Adinolfi sono rilevanti se si considera che da questi spunti le procure di Firenze e Caltanissetta stanno compiendo degli accertamenti ulteriori che, qualora confermassero le indicazioni dei giudici palermitani, segnerebbero un passo importante nella ricerca della verità sui mandanti esterni delle stragi del 1992 e del 1993.

La conferma a Spatuzza e l'incontro al bar Doney
A prescindere da quel che sarà l'esito va comunque fissato un primo punto.
Infatti, secondo i giudici della Corte d'Assise di Palermo, nelle registrazioni di Graviano vi sarebbe anche la conferma a “l’esistenza delle assicurazioni che Berlusconi e Dell’Utri avevano dato a Graviano quando nel gennaio 1994 questi ebbe a manifestare particolare felicità a Spatuzza perché così si sarebbero ‘messi il Paese nelle mani’”.
L'ex killer di Brancaccio aveva raccontato di aver incontrato il capomafia il 19 o il 20 gennaio 1994, pochi giorni prima del fallito attentato all'Olimpico, che si sarebbe dovuto verificare il 23 gennaio.
"Ci recammo presso il bar Doney, in via Veneto a Roma - aveva raccontato al processo trattativa - Già fuori c'era Giuseppe Graviano ad attenderci. Lui era latitante e sebbene sarebbe dovuto salire in macchina mi invita ad entrare al bar per consumare qualcosa. Aveva un'aria gioiosa e mi disse che avevamo ottenuto tutto quel che cercavamo grazie a delle persone serie che avevano portato avanti la cosa. Io capii che alludeva al progetto di cui mi aveva parlato già in precedenza, in un altro incontro a Campofelice di Roccella”. “Poi - aveva proseguito - aggiunse che quelle persone non erano come quei quattro crasti (cornuti, ndr) dei socialisti che prima ci avevano chiesto i voti e poi ci avevano fatto la guerra”. “‘Ve l’avevo detto che le cose sarebbero andate a finire bene’”, avrebbe detto Graviano. “Poi - aveva continuato - mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l'Italia”.
L'ex killer di Brancaccio, la cui collaborazione viene ritenuta dalla corte di "elevatissima attendibilità intrinseca", ha riferito anche che in quell'occasione Graviano gli disse che era necessario comunque compiere l'attentato contro i carabinieri allo stadio Olimpico perché si doveva dare "il colpo di grazia".

Le tempistiche
Nel corso del dibattimento è emerso che proprio in quel periodo Marcello Dell'Utri si trovava nella Capitale presso l'Hotel Majestic, a poche centinaia di metri dal bar Doney, dove si svolgeva una convention di Forza Italia. Gli investigatori della Dia avevano riscontrato l'arrivo di Dell'Utri presso l'Hotel è il 18 gennaio anche se non è stato possibile capire quando l'ex senatore ha lasciato la struttura.
E' possibile che Dell'Utri e Graviano si siano incontrati nei giorni precedenti?
La coincidenza dei luoghi lascia aperta la possibilità. E' noto che qualche giorno dopo, il 26 gennaio, Berlusconi ufficializzerà il suo ingresso in politica mentre il giorno successivo (il 27 gennaio) Giuseppe e Filippo Graviano saranno arrestati a Milano e da quel momento in poi la stagione delle stragi avrà fine.

Il fallito attentato all'Olimpico
Nelle 5252 pagine delle motivazioni della sentenza il fallito attentato all'Olimpico, nel giorno della partita Roma-Udinese, viene valutato come "l'inevitabile effetto del segnale di cedimento dello Stato conseguente alla mancata proroga dei decreti del 41 bis subito raccolto da "Cosa nostra" per dare il 'colpo di grazia' e piegare definitivamente la volontà degli interlocutori istituzionali su tutte le richieste che erano state avanzate quali condizioni per la cessazione delle stragi". Quell'attentato sarebbe stato ancora più eclatante dei precedenti. L'auto, una Lancia Thema bordeaux, non solo era stata imbottita di tritolo ma anche di tondini di ferro, in modo di fare centinaia di vittime tra i carabinieri in servizio allo stadio per garantire l’ordine pubblico. E assieme a loro, quel giorno allo stadio, vi erano anche famiglie, donne, bambini.
I giudici spiegano come quell'episodio "passato quasi in secondo piano perché per fortuna fallito, se, invece, fosse riuscito ed avesse, quindi, determinato la morte di un così rilevante numero di Carabinieri, avrebbe con ogni probabilità veramente messo in ginocchio lo Stato pressoché definitivamente (il "colpo di grazia", per fortuna, soltanto vaneggiato da Giuseppe Graviano) dopo la sequenza delle gravissime stragi che si erano già susseguite dal 1992, ciò tanto più che l'ulteriore strage (la più grave per numero di vittime) sarebbe intervenuta in un momento di estrema debolezza delle Istituzioni a fronte di un Governo di fatto già dimissionario e di un Parlamento già proiettato verso le imminenti elezioni politiche nel contesto di una campagna elettorale particolarmente aspra per le scorie della c.d. 'tangentopoli' che aveva travolto tutti i partiti politici tradizionali".
Dunque quella strage "avrebbe sicuramente cambiato (ovviamente in maniera tragica) la storia di questo Paese, aprendo la porta ad una fase di instabilità e di incontrollabilità del fenomeno mafioso foriera di esiti, sì, imprevedibili, ma certamente tutti gravemente negativi per la sopravvivenza stessa delle Istituzioni democratiche".
Si legge sempre nelle motivazioni che: "La storia non si fa con i se, ma le risultanze di questo processo – e della ricostruzione storica sottesa – inducono fondatamente a ritenere, tuttavia, che quella ulteriore strage, con la possibile uccisione di oltre cento carabinieri, se fosse riuscita, avrebbe messo definitivamente in ginocchio lo Stato, costringendolo a capitolare a fronte delle sempre più pressanti minacce provenienti dall’organizzazione mafiosa siciliana che avevano, ormai, trasceso i stretti confini regionali, coinvolgendo altre realtà criminali (camorra, ‘ndrangheta e mafia pugliese) e altri territori di particolare importanza anche per la rilevanza internazionale (come nel caso delle città di Roma, Firenze e Milano)”.
Il fallimento dell'attentato, dunque, unito all'arresto dei Graviano, per la corte ha "mutato il corso delle cose e forse 'salvato' il Paese da anni sicuramente bui e tristi", tuttavia rendono evidente come fosse "fallace e illusoria la speranza di coloro che ritennero di potere attenuare la pressione del fenomeno mafioso mediante politiche 'al ribasso' nell'azione di contrasto al fenomeno medesimo e forme di convivenza con questo purché venissero abbandonati i picchi più eclatanti ed evidenti dell'azione criminale che maggiormente allarmavano (e allarmano) l'opinione pubblica". “Ciò seppure occorra distinguere - aggiungono - poi, tra coloro che, più o meno implicitamente, ma, comunque, consapevolmente, sollecitarono tali forme di convivenza mediante intese più o meno sotterranee e coloro che, come il ministro Conso, con una diversa consapevolezza che atteneva non già alla suddetta scelta sollecitatoria, ma solo alla ritenuta obbligatorietà morale di una decisione finalizzata ad evitare nefaste conseguenze, furono, di fatto, soltanto vittime della violenza della minaccia mafiosa” una distinzione, quest'ultima, rimarcata per distinguiere tra l'operato dell'ex ministro della Giustizia ed i carabinieri che avviarono il dialogo con i vertici di Cosa nostra immediatamente dopo l'eccidio di Capaci.

Asse Cosa nostra - 'Ndrangheta
La corte valuta anche positivamente le dichiarazioni del collaboratore di giustizia calabrese Consolato Villani che ha riferito degli attentati ai carabinieri tra la fine del 1993 ed i primi del 1994. In particolare si concentra sulla data del 18 gennaio 1994 in Calabria (proprio nei giorni in cui Spatuzza si incontrò con Graviano e gli disse anche che "i calabresi si sono mossi...", ndr), in cui vengono uccisi i carabinieri Vincenzo Garofalo e Antonino Fava. I giudici evidenziano come quell'operati si inserisca nella strategia stragista che stava portando avanti Cosa nostra tanto che scrivono: "Non può dubitarsi, invece, dell'interesse comune degli 'ndranghetisti calabresi nell'ottenimento di benefici carcerari di cui si sarebbero avvantaggiati anche i detenuti di quell'organizzazione criminale".
Non solo. I giudici rafforzano il concetto analizzando il fatto che in occasione degli attentati ai carabinieri Villani e Calabrò, altro collaboratore di giustizia che ha riferito quei fatti, vengono utilizzate le medesime armi. Questo, secondo la corte, "trova chiaro ed agevole chiarimento nella volontà di esplicitare agli investigatori il collegamento tra gli stessi, così da inquadrarli in un'unica strategia e mandare a chi poteva comprendere quel messaggio che la strategia ideata in Sicilia dai 'corleonesi' intendeva, appunto, inviare, per riallacciare la 'trattativa' di fatto interrotta dopo l'arresto di Vito Ciancimino e di Salvatore Riina e, quindi, sfruttando il segnale di cedimento dello Stato conseguente alla mancata proroga dei decreti del 41 bis, per piegare definitivamente la volontà degli interlocutori istituzionali su tutte le richieste che erano state avanzate quali condizioni per la cessazione delle stragi".
E a dimostrazione del collegamento tra Cosa nostra e le organizzazioni criminali vi è un lungo riferimento all'informativa della Direzione Investigativa Antimafia sottoscritta in data 4 marzo 1994 dal Capo Reparto Investigazioni Giudiziarie Dott. Pippo Micalizio.
Un documento eccezionale dove, tra le altre cose, vi è anche un riferimento al fenomeno della Falange Armata.

Foto © Ansa e Imagoeconomica

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