di Aaron Pettinari
Ieri in aula anche l'ispettore di polizia Catuogno: "Scarantino aveva il numero di telefono del pm Palma"
Se paragonata alle udienze fiume più recenti, con l'audizione del falso pentito della Guadagna Vincenzo Scarantino, quella di ieri è stata una delle più rapide dell'intero dibattimento. Fatto anomalo se si considera che a salire sul banco dei testimoni è stato il colonnello dei carabinieri Giovanni Arcangioli, in passato finito sotto indagine per il furto dell'agenda rossa del procuratore aggiunto Paolo Borsellino (forse l’atto più grave di tutto il depistaggio di via d'Amelio) poi assolto per "non aver commesso il fatto", nonostante le famose immagini in cui viene ritratto con in mano la borsa del giudice e le continue testimonianze costellate più di dubbi che di certezze.
Un esame che è proceduto in maniera spedita anche perché su accordo delle parti si è provveduto ad acquisire tutti i verbali dello stesso militare (da quello del 5 maggio 2005 all'ultimo all'udienza del Borsellino quater datato 14 maggio 2013). Non sono state dunque molte le domande del procuratore aggiunto Gabriele Paci anche perché lo stesso Arcangioli ha dal primo momento dichiarato che rispetto a quanto riferito l'ultima volta "i ricordi sono sempre quelli". Tuttavia l'ufficiale dei carabinieri ha voluto cogliere l'occasione per togliersi qualche "sassolino dalle scarpe" per allontanare il più possibile ogni sospetto sulla sua figura. "C'è una cosa che mi dà un fastidio quasi epidermico - ha detto dopo aver chiesto di non essere ripreso o fotografato - C'è un video della Rai, a mia disposizione di quella giornata, dove si vede nei primi fotogrammi che mi dirigo verso Autonomia della Regione Siciliana. Andando a vederlo oltre, anziché i primi due minuti, c'è la telecamera che riprende da via d'Amelio e la situazione è assolutamente diversa da quello che sembra nei primi secondi. Ci sono tracce abbondanti di acqua usata per spegnere gli incendi, una persona anziana che viene dalla zona dell'esplosione. I vigili del fuoco che non corrono. Insomma una situazione drammatica ma non critica come poteva sembrare nei primi fotogrammi. E questo è un momento tutto attaccato. E quando sono ritratto in quelle immagini non è il momento subito dopo l'esplosione. A un certo punto c'è un signore con la maglietta verde che passa dal luogo e io lo riconosco nel mio Comandante del nucleo, Menicucci, che passava di lì. Ritengo che vedendolo passare sono andato dietro di lui per dirgli che mi era stata data la borsa. Presidente è un 'probabilmente' perché io non ho nella mente il ricordo ma è il video che mi riporta alla ricostruzione. Che fosse Menicucci l'ho apprezzato successivamente in altri frame del filmato".
Così Arcangioli sembra voler spostare più avanti nel tempo quelle operazioni che l'hanno visto protagonista dopo la strage. Eppure il dato certo è che la foto che lo ritrae con la valigetta di Borsellino è stata scattata tra le 17,20 e le 17,30 del 19 luglio 1992.
Ma l'autodifesa di Arcangioli non si è limitata a quel solo attimo. Proseguendo nell'esame ha aggiunto: "Durante il processo mi fu fatta vedere una foto sul tablet, molto sfocata. Si parlava di un video inedito, in realtà pubblicato su Youtube nel 2011, in cui sembrava che ci fossi io con altre persone con in mano una valigetta e una macchina con i fari accesi. Tornato a Roma, ho rivisto il video. Ero io con tre collaboratori. In mano non avevamo nulla, dietro di noi c’era un finanziere che non aveva nulla in mano. Dico questo perché poi su qualche giornale si è scritto che si poteva dimostrare il passaggio della valigetta. E la macchina con i fari accesi non era altro che un carro funebre. Dalle immagini è evidente che non si tratta dei primi istanti dopo l’esplosione. La presenza delle pozzanghere d’acqua e del carro funebre fa comprendere che ci troviamo parecchio tempo dopo l’esplosione”.
Al Procuratore Paci che gli ha fatto notare quanto riferito nelle dichiarazioni spontanee sui tempi in cui si sarebbe recato in via d'Amelio ha risposto: "Ritengo di essere arrivato verso le 17.20 io non è che guardavo l'orologio. Ritengo che potesse essere quell'orario. Arrivò la chiamata in ufficio, al Comandante del Nucleo e ci fu detto di scendere sul posto. Trovammo vigili del fuoco, tantissima gente ma non posso essere in grado di dire con certezza che erano le 17.20".
Tra una contestazione e l'altra Arcangioli ha spiegato di aver usato spesso il "mi sembra” nelle sue precedenti dichiarazioni "perché non ha ricordo nella mente di quella giornata". Quindi ha detto di non aver fatto caso se la valigetta del giudice Borsellino fosse bruciata, macchiata o se avesse delle fibbie.
"Lei deve comprendere che per mestiere devo farle domande così come è suo dovere rispondere secondo verità per quelli che sono i suoi ricordi" ha replicato Paci che a quel punto ha anche chiesto se la borsa fosse bagnata o se vi fossero tracce di un intervento dei vigili del fuoco. Ma Arcangioli è stato nuovamente vago: "Mi sembra di no, non c'era acqua dentro. Almeno così mi è parso. Ritengo che se dicessi che sicuramente era bagnata e c'era acqua dentro potrebbe essere a mio vantaggio perché significa che quel fatto è avvenuto in epoca successiva. Ma non me lo ricordo".
E alla memoria tornano le conclusioni dei giudici del Borsellino quater dove, pur evidenziando la sentenza di non luogo a procedere nei suoi confronti emessa dal Gup di Caltanissetta il 1° aprile 2008, confermata dalla Corte di Cassazione il 17 febbraio 2009, si parla di comportamento "molto grave" dell'allora Capitano Arcangioli.
Nelle carte si legge che l’ufficiale dei Carabinieri ammetteva la circostanza “senza fornire alcuna spiegazione plausibile del suo comportamento, poco chiaro, limitandosi a dichiarare (in maniera assai poco convincente) che la borsa in questione - dal suo punto di vista - in quel momento, era un oggetto di scarsa o nulla rilevanza investigativa e che non ricordava alcunché”. Per i giudici si tratta di un’affermazione “scarsamente credibile” e anche “in palese contraddizione con la circostanza che il teste, in quel contesto così caotico e drammatico, si premurava di prelevare la borsa dalla blindata, guardando all’interno della stessa”.
La testimonianza di Catuogno
Prima di Arcangioli è stato sentito anche l’ispettore di polizia Luigi Catuogno, agente del Nop Veneto addetto tra il '96 e il ’98 alla tutela del falso pentito Scarantino.
Così come aveva fatto al Borsellino quate nel 2013, Catuogno ha confermato che l'ex pentito durante il periodo della sua collaborazione con gli inquirenti aveva "il numero diretto di un magistrato" e che "parlava della dottoressa Annamaria Palma".
"Con me si trovava a suo agio perché io capivo il dialetto. Parlava molto poco. - ha detto il teste - Quando parlavamo la moglie andava in un'altra stanza. Mi raccontava che in carcere lo avevano picchiato e che in una delle località gli guardavano la moglie e lui era geloso e aveva chiesto di andarsene via. E mi diceva che lui con via d'Amelio non c'entrava niente".
"Davanti a me una mattinata ha provato più volte a chiamare a un magistrato - ha proseguito l'ispettore di polizia - e dopo disse in palermitano "mi posò". Lui si era convinto di essere stato posato". Così come aveva detto il 20 novembre 2013 ha ribadito che in un'occasione Scarantino disse che "la dottoressa Annamaria Palma, aveva architettato tutto”.
In un altro episodio sarebbe stata presente anche la moglie di Scarantino, Rosalia Basile: "Entrambi parlavano di un verbale fatto mesi prima su alcune dichiarazioni. Loro sostenevano che lo Scarantino era uscito di casa alle sette e mezza mentre questa dottoressa Palma, a loro dire, diceva che si ricordavano male e che era uscito alle cinque e mezza. La moglie di Scarantino era molto innervosita".
Un altro episodio di cui ha parlato il teste è stato il trasferimento della famiglia di Scarantino presso la parrocchia di Don Giovanni Neri, a Marsiglia, dopo la nota ritrattazione di Como dello Scarantino. "Ci fu un gran trambusto quel giorno. La località protetta era saltata. Scarantino fu poi portato a Rebibbia. La famiglia, invece da questo parroco. Quando arrivammo sul posto vedemmo una Hyundai a sei cilindri. In quel periodo era un'auto in dotazione agli organi dello Stato. Si avvicinò a noi un uomo e chiesi chi fosse. Mi rispose: 'non ti preoccupare'. Poi mi portò in un sottotetto della chiesa e l'arredamento era come quello che noi avevamo in ufficio c'erano armadi, dei faldoni e persino le stesse luci dei nostri uffici. Parlammo tre, quattro minuti. Ebbi l'impressione che lui sapeva chi eravamo noi. Ma noi non sapemmo mai chi era questa persona. So solo che non mi era garbata molto quella cosa". Il processo è stato rinviato al 28 giugno quando sarà sentito l'ex pm Giuseppe Ayala.
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