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Ampio risalto ad uno dei misteri più inquietanti di via d’Amelio nella sentenza depositata

Una connessione. E’ quello che scrivono i giudici della Corte di Assise di Caltanissetta (Presidente Antonio Balsamo, giudice a latere Janos Barlotti) nella motivazione del Borsellino Quater quando si riferiscono ai “collegamenti” tra la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino e il depistaggio di Stato nelle indagini sulla strage di via d’Amelio. Un depistaggio che – come aveva ribadito in Commissione antimafia il pm Nino Di Matteo – era iniziato subito dopo la strage (due anni prima dal momento in cui Di Matteo si era occupato delle indagini) per creare prove false, con una sorta di “fonte” della Polizia capace di fornire notizie, anche vere, da mettere in bocca al “pupo” Vincenzo Scarantino.

Quell’agenda trafugata
Fari puntati quindi sulla “sottrazione” dell’agenda rossa che il dott. Borsellino “aveva con sé al momento dell’attentato” e che “conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci”. Cosa poteva aver scritto in quella agenda Paolo Borsellino? Quali possibili intuizioni su quel “dialogo” tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, di cui aveva accennato a sua moglie Agnese prima di essere assassinato assieme ai cinque agenti della sua scorta, potevano essere state trascritte in quelle pagine? “Poiché l’attività di determinazione così accertata ha consentito di realizzare uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana – evidenziano i giudici nel documento di 1856 pagine – è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento”. Quale regia occulta ha impostato questa strage e per quale motivo? Per mantenere uno status quo funzionale a determinati sistemi di potere che hanno trattato con la mafia? Domande che restano senza risposta. Brucianti interrogativi su quella “eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra ‘Cosa Nostra’ e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato”. Tornano in mente le parole dell’ex boss Salvatore Cancemi che aveva raccontato agli investigatori che Totò Riina “era stato preso per la manina” dallo Stato per fare le stragi. Ma per fare luce su queste trattative manca sempre un “pentito di Stato”. Che, per paura o mero calcolo, continua a rimanere sulla riva del fiume in attesa che passi la piena.


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In un frame, l'agenda rossa di Paolo Borsellino



Rutilius e l’agenda rossa
Ma chi c’è tra quei personaggi “inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti” del depistaggio? Leggendo la sentenza non ci sono dubbi: il principale protagonista è l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera che per i giudici ebbe un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell'agenda rossa”. Va subito ricordato che nel 2010 sul conto dell’ex Dirigente della Mobile di Palermo era emerso un dato inquietante e cioè che La Barbera era stato affiliato al Sisde dall’86 all’88 con il nome in codice di “Rutilius”. Un’affiliazione avvenuta grazie all’interessamento del suo amico all’interno del Servizio civile, Luigi De Sena. Quella collaborazione evidentemente non si era interrotta nel 1988, tanto che la procura di Caltanissetta lo aveva definito un “protagonista assoluto dell’intera attività di depistaggio” nelle indagini su via d’Amelio.

Il ruolo di Giovanni Arcangioli
Viene altresì definito “molto grave” il comportamento dell’allora Capitano Giovanni Arcangioli del Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo “immortalato nell’atto di allontanarsi dal luogo della strage”, il pomeriggio del 19 luglio 1992, in direzione di via dell’Autonomia Siciliana, “con in mano proprio la borsa del Magistrato” (di Paolo Borsellino, ndr). Nel documento si legge che l’ufficiale dei Carabinieri, ammetteva la circostanza “senza fornire alcuna spiegazione plausibile del suo comportamento, poco chiaro, limitandosi a dichiarare (in maniera assai poco convincente) che la borsa in questione - dal suo punto di vista - in quel momento, era un oggetto di scarsa o nulla rilevanza investigativa e che non ricordava alcunché”. Per i giudici si tratta di un’affermazione “scarsamente credibile” e anche “in palese contraddizione con la circostanza che il teste, in quel contesto così caotico e drammatico, si premurava di prelevare la borsa dalla blindata, guardando all’interno della stessa”. Nelle note viene comunque sottolineato che il Capitano Arcangioli è stato prosciolto dall’accusa di furto dell’agenda rossa, aggravato dalla finalità mafiosa, con sentenza di non luogo a procedere emessa dal Gup di Caltanissetta il 1° aprile 2008, confermata dalla Corte di Cassazione il 17 febbraio 2009. Un proscioglimento che non ha affatto chiarito la sua ambigua deposizione davanti ai magistrati definita “ben poco convincente”. Nelle sue prime dichiarazioni del 2005 il teste spiegava che il 19 luglio ‘92 sarebbe stato informato dall’ex pm Giuseppe Ayala, oppure dal magistrato Vittorio Teresi, “più probabilmente dal primo dei due” del fatto “che esisteva un’agenda tenuta dal dottor Paolo Borsellinoe che, su specifica richiesta, andava a controllare all’interno dell’automobile blindata, dove effettivamente rinveniva la borsa in pelle di color marrone, sul pianale dietro al sedile del conducente”. Secondo il suo racconto, dopo aver prelevato la borsa dall’automobile blindata, portandola dove stavano Ayala e Teresi, “uno dei due predetti magistrati aprì la borsa”. Dentro la quale secondo Arcangioli “non vi era alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta”, dopodichè avrebbe incaricato uno dei propri sottoposti “di mettere la borsa nella macchina di servizio di uno dei due Magistrati predetti (Ayala e Teresi, ndr)”. La prima incongruenza riguarda la presenza dello stesso Teresi che arrivò invece in via d’Amelio quasi due ore dopo lo scoppio dell’autobomba, mentre Ayala sopraggiunse subito dopo il boato in quanto abitava poco vicino. Ma sono ben altri i misteri racchiusi in quei minuti frenetici a ridosso dello scoppio della Fiat 126. Per quale motivo la valigetta di Paolo Borsellino - che Arcangioli teneva in mano mentre si allontanava da via d’Amelio - ricompare dopo alcuni minuti nella macchina del giudice assassinato? Chi dà l’ordine di riportarla lì priva del suo prezioso contenuto? In quel momento in via d’Amelio erano sopraggiunti il commissario Paolo Fassari (primo dirigente della polizia di Stato, funzionario reperibile per la squadra mobile di Palermo in assenza del dirigente Arnaldo La Barbera) e l’assistente capo di polizia, Francesco Paolo Maggi. Dopo aver espletato alcune attività investigative Francesco Maggi si era avvicinato alla Croma di Borsellino. La portiera posteriore sinistra era aperta e sul sedile posteriore era appoggiata la valigetta del magistrato. Lo stesso Maggi aveva raccontato di averla prelevata dall’auto, e di averla portata in Questura su indicazione di Fassari. Certo è che per il Gip nisseno Ottavio Sferlazza, che nel 2008 aveva iscritto Arcangioli nel registro degli indagati con l’accusa di furto aggravato, quello sarebbe stato il secondo prelevamento della valigetta. Secondo la ricostruzione giudiziaria la prima persona che recupera la valigetta di Borsellino sul sedile posteriore è l’agente di scorta di Giuseppe Ayala, Rosario Farinella. Dal canto suo l’ispettore Francesco Paolo Maggi aveva dichiarato di averla trovata “sul pianale posteriore dietro il sedile passeggeri”. A detta del gip nisseno la sparizione dell’agenda rossa andava collocata “in una fase certamente precedente all’intervento dell’ispettore Maggi”, una sparizione “chiaramente ascrivibile all’ufficiale dell’arma dei carabinieri Arcangioli Giovanni”. Ma la Cassazione è stata di tutt’altro avviso.
Resta però in piedi un dato oggettivo: verso le ore 18.30 del 19 luglio ‘92 la valigetta di Paolo Borsellino si materializza nell’ufficio del dirigente della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera. Ma al suo interno non c’è l’agenda rossa.


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Arnaldo La Barbera © Imagoeconomica



Una (tardiva) relazione
Su questo punto specifico vale la pena di rileggere un altro passaggio della sentenza. “Un vigile del fuoco, non meglio identificato (dell’età di circa quarant’anni), seguendo le disposizioni di Maggi, spegneva il focolaio d’incendio che interessava la Fiat Croma blindata, che aveva già lo sportello posteriore sinistro aperto. Il fuoco cominciava ad attingere anche la borsa che era all’interno dell’abitacolo, in posizione inclinata, fra il sedile anteriore del passeggero e quello posteriore. La borsa, bruciacchiata ma integra, veniva prelevata (quasi sicuramente) dal predetto vigile del fuoco, che la passava a Maggi. Nei pressi non vi era il dottor Giuseppe Ayala (pure notato e riconosciuto dal teste, prima di allontanarsi dalla via d’Amelio). Il poliziotto poteva constatare che la borsa era piena, anche se non ne controllava il contenuto all’interno. Maggi consegnava la borsa al proprio superiore gerarchico, rimasto all’inizio della via d’Amelio (lato via Dell’Autonomia Siciliana) a comunicare, via radio, con gli altri funzionari. Quest’ultimo funzionario (trattasi del menzionato dottor Fassari della Sezione Omicidi) teneva la borsa del Magistrato fino a quando, ad un certo punto, rivedendo il sottoposto, gli ordinava di portarla subito negli uffici della Squadra Mobile. Così faceva il Maggi, che la portava dentro l’ufficio del dottor Arnaldo La Barbera (dove entrava con l’aiuto dell’autista del dirigente), lasciandola sul divano dell’ufficio”. Ma del ritrovamento della valigetta di Borsellino, né Arcangioli, né nessun altro, aveva immediatamente redatto una relazione. Solamente cinque mesi dopo sarebbe stata stilata “su esplicita richiesta del dottor Arnaldo La Barberaed unicamente in vista dell’audizione (pochi giorni dopo) del teste (Maggi, ndr) davanti al Pubblico Ministero di Caltanissetta, Fausto Cardella.

Le (troppe) parole di Ayala
Veri e propri vuoti di memoria sono quelli dell’ex pm del Maxi processo. “Il teste – scrivono i giudici – (non senza alcune difficoltà mnemoniche) spiegava che non sapeva nemmeno che Paolo Borsellinoteneva un’agenda nella quale annotava le proprie riflessioni più delicate”. “Comunque, Ayala escludeva decisamente d’aver guardato dentro alla borsa di Paolo Borsellino,che pure passava fugacemente fra le sue mani, così come escludeva d’averla portarla via sulla autovettura blindata della propria scorta”. Per comprendere meglio il mancato apporto di Ayala alla ricerca della verità sulla scomparsa dell’agenda rossa basta riprendere il confronto tra quest’ultimo e Arcangioli al Borsellino Quater. Parole, parole e ancora parole per modificare le proprie versioni dei fatti, o semplicemente per dire di non ricordare. Come nel caso della ricostruzione di Ayala con riferimento all’incontro in via d’Amelio con il cronista Felice Cavallaro. Stesso discorso per le contraddizioni emerse durante la deposizione di Ayala mentre ricordava i momenti in cui il suo agente di scorta Roberto Farinella apriva la portiera della Croma di Borsellino. “Lo stesso Farinella – scrivono i giudici – prelevava direttamente la borsa dal sedile posteriore e, dopo un certo lasso di tempo in cui la teneva in mano, su indicazione di Ayala, la consegnava ad una persona – in abiti civili – conosciuta dal Parlamentare (anche questo ricordo del teste contrasta decisamente con quanto affermato da Ayala ed anche da Cavallaro, in merito alla consegna della borsa ad un ufficiale in uniforme, neppure conosciuto). Il soggetto che riceveva la borsa non era Giovanni Arcangioli (la cui fotografia veniva mostrata al teste) ed era una persona conosciuta da Ayala”.


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Giuseppe Ayala © Imagoeconomica


La presenza dei Servizi in via d’Amelio
“Mentre si diradava il fumo – si legge nella sentenza – si potevano notare quattro o cinque persone, vestite tutte uguali, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenario della strage, anche nei pressi della predetta blindata: si trattava, a dire del teste (l’ispettore Francesco Paolo Maggi, ndr), di appartenenti ai Servizi Segreti, alcuni dei quali conosciuti di vista da Maggi e già notati a Palermo, presso gli uffici del Dirigente della Squadra Mobile, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci”. Per i giudici questa circostanza, prima della deposizione dibattimentale, “era assolutamente inedita, nonostante le diverse audizioni precedenti del teste, in fase d’indagine preliminare”. La presenza di appartenenti ai Servizi Segreti, in via d’Amelio, a pochi minuti dalla deflagrazione, viene evidenziata riprendendo le dichiarazioni dell’ispettore di Polizia Giuseppe Garofalo rese in udienza il 5 febbraio 2015. “L’agente dei Servizi Segreti chiedeva (a Garofalo, ndr) se c’era la borsa del Magistrato dentro l’auto blindata, oppure (addirittura) si giustificava per il fatto che aveva detta borsa in mano”. L’analisi finale dei giudici è tranciante: “L’istruttoria dibattimentale ha fatto emergere le persistenti zone d’ombra sull’argomento, anche per le notevoli ambiguità e la scarsa linearità di alcuni dei testimoni assunti, sovente in contraddizione reciproca fra loro.
Non sono stati ancora raccolti elementi chiarificatori in grado di dipanare, in maniera definitiva, la matassa relativa alle modalità della sparizione dell’agenda rossa del Magistrato (certamente non sottratta da appartenenti a Cosa Nostra), che si sarebbe rivelata di fondamentale importanza per lo sviluppo delle indagini sulle vicende stragiste”.

In conclusione
“Già nell’immediatezza della strage – si legge nella conclusione del capitolo che riepiloga i punti salienti – attorno all’automobile blindata del Magistrato ucciso, vi erano una pluralità di persone in cerca della sua borsa e di quello che la stessa conteneva, ivi compresi alcuni appartenenti ai Servizi Segreti”. Ma proprio chi notava la presenza “oggettivamente anomala, se non altro per i tempi” di quegli esponenti dei Servizi “non riteneva di riferire alcunché ai propri superiori gerarchici od ai Pubblici Ministeri (la circostanza, come detto, veniva affermata dal Sovrintendente Maggi, per la prima volta in assoluto, nel dibattimento di questo processo, oltre vent’anni dopo i fatti; anche il Vice Sovrintendente Garofalo veniva sentito, per la prima volta, dalla Procura di Caltanissetta, nell’anno 2005)”. I giudici nisseni ribadiscono quindi che ai familiari di Paolo Borsellino “non veniva mai notificato alcun verbale di sequestro della borsa del loro congiunto ed alla vedova veniva mentito, considerato che il dottor Arnaldo La Barberale diceva che detta borsa era andata distrutta nella deflagrazione, sebbene risulti (come detto) che il reperto giungeva nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo già nel pomeriggio del 19 luglio 1992”. E soprattutto, chi portava la valigetta di Borsellino nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo “non riteneva di dover fare alcuna relazione di servizio (almeno fino a cinque mesi dopo), né di dover far rilevare che vi erano degli appartenenti ai Servizi Segreti sullo scenario della strage”. Alcuni mesi dopo la strage Arnaldo La Barbera si recava personalmente a casa della signora Agnese Piraino, per la restituzione della borsa del marito. Una restituzione che “avveniva in maniera irrituale e frettolosa (ancora una volta, non veniva redatto alcun verbale, né consta alcuna relazione di servizio)”. In quella occasione, di fronte alle richieste della figlia, Lucia Borsellino, di riavere indietro anche l’agenda rossa del padre (che non risultava presente dentro la borsa fra gli altri suoi effetti personali), il Dirigente della Squadra Mobile di Palermo “con un atteggiamento infastidito e sbrigativo, affermava, in maniera categorica (ed apodittica), che non esisteva alcuna agenda rossa da restituire; a fronte dell’insistenza della ragazza (che usciva persino dalla stanza, sbattendo la porta), il dottor Arnaldo La Barbera,con la sua voce roca, diceva alla vedova che sua figlia necessitava di assistenza psicologica, in quanto ‘delirava’ o ‘farneticava’. Un atteggiamento, questo, che rivelava non solo una impressionante insensibilità per il dolore dei familiari di Paolo Borsellino,ma anche una aggressività volta a mascherare la propria evidente difficoltà a rispondere alle domande poste, con grande dignità e coraggio, da Lucia Borsellino,nel suo forte e costante impegno di ricerca della verità sulla morte del padre”. Domande di estrema gravità, alle quali questo Stato ha l’obbligo morale di dare una volta per tutte delle risposte definitive.

Foto di copertina © Shobha

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