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Incontrai una sola volta Silvio Berlusconi, e da quanto racconterò si capirà perché stesi un velo pietoso su quel nostro singolarissimo approccio. E’ la prima volta che ne parlo. 

La scena si svolge a Catania, a fine gennaio 1996, all’interno dell’aula bunker del carcere di Bicocca. Lì si celebrava, tanto per cambiare, un processo per mafia, a seguito di un violento attentato che aveva distrutto in località Santa Tecla la villa a mare del presentatore Pippo Baudo, nel novembre del 1991. 

Era il periodo degli attentati dinamitardi di Cosa Nostra ai magazzini della Standa, a Catania, di proprietà di Berlusconi. Poi si sarebbe scoperto che quelli erano avvertimenti rivolti all’imprenditore milanese che si stava facendo largo in Sicilia per costringerlo a scendere a patti, trattare e pagare. 

Tutti questi episodi criminali rientravano a pieno titolo nel cosiddetto “processo Orsa Maggiore” contro il boss Nitto Santapaola, capo della mafia catanese, e oltre un centinaio di affiliati. 
In quel processo, la corte aveva disposto la testimonianza di Silvio Berlusconi che, dopo la sua leggendaria “discesa in campo”, era già stato Presidente del Consiglio.

Il giorno di quella deposizione, che aveva richiamato giornalisti da ogni parte d’Italia, e non solo, per l’importanza dei due nomi alla ribalta - Berlusconi, ascoltato come persona informata sui fatti, e Baudo, che si era costituito parte civile - Berlusconi arrivò con un po' di ritardo, ritualmente preannunciato da un elicottero che aveva iniziato a ronzare sull'aula bunker. Appena sceso dall’auto, fu letteralmente circondato da una selva di microfoni e telecamere. Solita ressa, in casi del genere.

Berlusconi fu persino colpito accidentalmente sui denti dalla telecamera di un inviato di Rai Uno, ma, come era nel suo stile, si rivolse al collega terrorizzato, che lo aveva involontariamente colpito, dicendogli scherzosamente; “per questa volta io la assolvo”. Qualche istante dopo Berlusconi scomparve dentro i meandri dell’aula bunker seguito dalla sua scorta. 

Tutti cercavamo Berlusconi. Tutti volevamo intervistarlo. Nessuno voleva mancare all’appuntamento con un leader politico di quel calibro interrogato in un processo per mafia, in quanto “persona informata su fatti” di mafia. Impresa però disperata, quasi titanica a causa della chiusura dei tanti portelloni blindati che immettevano all’interno delle aule dove si celebravano i dibattimenti. Sembravamo tutti tante mosche impazzite che ruotavano dentro un bicchiere.

Fu allora che mi allontanai di qualche metro dal gruppone dei colleghi e mi rivolsi a un giovane agente in divisa, chiedendogli se per caso sapesse dove fosse una toilette. Gentilmente mi indicò una porticina di legno che ci era incredibilmente sfuggita ma che distava un po’ dal luogo dove eravamo accampati.

Una volta dentro, mi si parò davanti un labirinto di altre porte che nessuno aveva provveduto a chiudere. Continuai ad andare avanti. 

Per non farla troppo lunga: a conclusione del giro dell’oca, mi ritrovai in una grande toilette. E dentro, appoggiati alle pareti, proprio gli uomini della scorta di Berlusconi. 

Troppo tardi per tornare indietro fingendo di avere sbagliato strada, ma anche troppo imbarazzante spingersi oltre. Fu Berlusconi che risolse l’impasse. 

Appena mi vide con la coda dell’occhio, mi disse sorridendo: “Si accomodi, si accomodi”, bloccando così i suoi uomini visibilmente infastiditi dalla mia intrusione.

Il resto è facile da immaginare. 

Facemmo la pipì fianco a fianco, in due orinatoi a parete, e nel frattempo mi chiedevo cosa avessi di tanto importante da chiedergli. Anche questo imbarazzo durò poco. Dopo esserci lavati le mani, Berlusconi, di fronte al lavandino, mi apostrofò dicendo: “Dalla faccia lei mi sembra un giornalista, e per la precisione un giornalista dell’Unità”. 

Doveva infatti essere uno che memorizzava le facce, e in quel periodo mi capitava spesso di essere ospite al “Costanzo show” proprio per parlare di mafia.
Diavolo di un Berlusconi. 

Non feci in tempo a fargli nessuna domanda. Le domande se le faceva da solo e si dava le sue risposte. 

Impossibile seguire il filo dei suoi ragionamenti, a base di nuova politica, Italia che sarebbe cambiata grazie a lui, suoi inizi da pioniere, insegnamenti ricevuti dal papà, rifiuto viscerale di comunisti, repulsione per il ruolo dei pubblici ministeri, mafia peggio che mai, tenuta da sé sempre alla larga, meravigliosa Sicilia che, guidata dalle giuste mani, avrebbe potuto vivere solo di turismo. Provai a interromperlo, lui prendeva la mia ultima parola della domanda e scantonava allegramente da un’altra parte. 

Eh andammo avanti per una mezzoretta buona. Alla fine, alzando il tono della voce, si congedò con questa frase: “E non dimentichi mai che io sono quello che ha inventato la panchina a dodici, io l’ho inventata la panchina a dodici”. 

Molti ora scrivono che il calcio fosse la sua vera passione. Io allora non sapevo nulla di cosa fosse la panchina a dodici. Ma è certo - e lo posso testimoniare - che quello fu il momento, nel suo soliloquio, di maggiore entusiasmo.

Per il resto, dialetticamente parlando, ebbi la sensazione che fosse un mago nel confondere l’interlocutore. 

Ecco. Riusciva mirabilmente a confondere tutto quello di cui parlava. Arte che evidentemente torna utile, quando si vuole trasformare in oro tutto ciò che si tocca. 

Quel giorno, mi limitai a scrivere il mio resoconto d’ordinanza sulla sua testimonianza in aula. Tacqui su tutto il resto. Voi che avreste scritto? 

Tutto ciò premesso, non mi commuovo particolarmente per il Governo di questo nostro povero paese che, in suo onore, ha appena proclamato il lutto nazionale.

Foto © Imagoeconomica

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La rubrica di Saverio Lodato

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