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lodato saguto beni confiscatiAnche rubare il denaro di Cosa Nostra è reato!
di Saverio Lodato
Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Pio La Torre, gente che se ne intendeva, erano tutti del parere che la via più breve per arrivare alla mafia nascosta era quella di seguire le tracce del denaro, il giro dell’oca del denaro; un po’ come gli sceriffi del Far West che, seguendo le orme del fuggiasco nel deserto, molto spesso, alla fine, riuscivano ad acciuffare il fuorilegge.
Quando si lavorava ancora con biro e pallottoliere, Falcone raccoglieva e indagava su migliaia di assegni, e quel gigantesco lavoro cartaceo, molto prima che venisse battezzato "Il metodo Falcone" (dal titolo di un recente ottimo lavoro televisivo del collega Salvatore Cusimano della Rai) sfociò nel primo grande processo a Cosa Nostra, il "processo Spatola-Gambino-Inzerillo". Processo - detto per inciso - per il quale gli americani mostrano ancora gratitudine verso Falcone, visto che diede inizio allo smantellamento dei clan di origine siciliana che si erano installati negli States.
Di questo innovativo modo di indagare, ne sapeva qualcosa Cristoforo Fileccia, ormai scomparso, figura gloriosa e storica del Palazzo di Giustizia di Palermo che, pur difendendo mafiosi a bizzeffe, riuscì sempre a tenere la schiena diritta a differenza di tanti altri suoi colleghi ai quali, deontologicamente parlando, prima o poi scappò la mano. E con Giovanni Falcone il rispetto era vicendevole.
Fu proprio Fileccia a raccontarmi di quel giorno in cui Falcone lo convocò nel suo ufficio, a pomeriggio inoltrato, per chiedergli conto di un "assegno sospetto" firmato da un suo assistito (mafioso) che poi sarebbe finito nel calderone del maxi processo. Falcone lo ricevette seduto alla sua scrivania, quasi barricato dietro una montagna di assegni che in precedenza aveva già spulciato uno per uno. La famosa "panna montata" che avrebbe finito per soffocarlo, secondo il giudizio acre dei suoi Nemici-Colleghi di allora. Non furono gli assegni a soffocarlo, ma il tritolo; ma questa è un’altra storia.        
Il racconto di quel giorno era esilarante, essendo Fileccia persona di irresistibile spirito, come possono testimoniare tutti quelli che ebbero modo di conoscerlo: "Falcone sorrideva. Prendeva mazzette d’assegni strette da un elastico, come fossero mazzette di banconote… Le faceva scorrere fra le sue dita… prr… prr… prr… e le rimetteva a posto passando alla successiva…  prr… prr… prr… Io ero morto! E mi chiedevo: ma che vuole dire? Dove vuole arrivare? Poi u capivi… A un certo punto da una delle mazzette… zacchete… estrasse un assegno, me lo sventolò sotto il naso e mi disse sornione: avvocato Fileccia e questo cos’è? Sa dirmi perché il suo assistito ha firmato questo assegno?… Può essere così cortese da informarsi? Mi faccia sapere, mi raccomando…".
Certo. Erano altri tempi. Ma il tema di fondo, quello che resiste all’usura del tempo, in tutte le vicende di mafia, è sempre quello del denaro.
Sembra quasi uno scherzo del destino, e citiamo Andrea Camilleri, che il capo dei capi di Cosa Nostra oggi si chiami "Denaro": "nomen" eccetera eccetera. Ma tanto paradossale la circostanza non è, visto che ormai per trovare Matteo Messina Denaro pare sia rimasta solo la via di seguire "Il Denaro", ma quello suo, che avrebbe portato chissà dove.
Ma è denaro anche quello, secondo l’accusa dei giudici di Caltanissetta, di cui si sarebbero appropriati indebitamente gli addetti ai lavori delle "misure di prevenzione" del Tribunale di Palermo. E qui arriviamo alla nota dolente. La vicenda è molto conosciuta, e stomachevole, a volerla dire sino in fondo, e ci limiteremo all’essenziale. D’altra parte Giorgio Bongiovanni ne ha scritto su questo giornale, in maniera sintetica e efficace.
Noi non sappiamo se la dottoressa Silvana Saguto, presidente dimissionaria delle misure di sorveglianza, sia colpevole o accusata ingiustamente. Le auguriamo di provare tutta la sua innocenza. Noi non sappiamo se suo marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma sia colpevole o innocente. Stesso augurio rivolgiamo anche a lui. Noi non sappiamo se l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, ha svolto bene il suo lavoro o ci ha marciato alla grande. Come sopra, anche per l’avvocato Seminara, e per tutti gli altri magistrati coinvolti nell’inchiesta: Tommaso Virga, presidente della quarta sezione penale del Tribunale; Lorenzo Chiaramonte, ex componente del collegio misure di prevenzione; Dario Scaletta, pubblico ministero della DDA (indagato per fuga di notizie), tutti in via d'uscita.     
Né va dimenticato Antonello Montante, investito per mafia da altra inchiesta, ma, a quanto pare, sempre per lo stesso argomento: Montante era nell’Osservatorio nazionale dei beni sequestrati dal quale è stato costretto a dimettersi, ma è rimasto pur sempre nel direttivo regionale di Confindustria.

Qui dovremmo aprire una lunga parentesi (ma le occasioni non mancheranno) per parlare di cosa sia in effetti questa Confindustria siciliana (solo siciliana?), anche alla luce, ad esempio, delle parole di Marco Venturi, presidente dell’associazione per la Sicilia orientale, in una sua clamorosa intervista a Attilio Bolzoni: "La svolta antimafia di Confindustria è solo un inganno".
E torniamo adesso al denaro, con la "d" minuscola.
Ipotizziamo, per un attimo, che le accuse dei giudici nisseni vengano provate. Come la mettiamo?
O meglio, come intende metterla il Csm?
Il vice presidente del Csm Giovanni Legnini ha incontrato il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, e ha commentato che: "Ci sono ampie e fondate ragioni per avviare la procedura del trasferimento d’ufficio". In altre parole, altra sede, altro incarico. La frase è indicativa di quanto appaia chiaro alle massime cariche istituzionali la inaudita gravita dell’ accaduto.  
Ma noi, anche in questa eventualità dei trasferimenti, non saremmo per niente  soddisfatti. E stessa indignazione proverebbero molti cittadini. Con quale logica, quale autorevolezza, quale requisito morale riconosciuto da tutti, questi magistrati potrebbero continuare a svolgere il loro lavoro da un’altra parte? In nome di "quale popolo italiano" sarebbero chiamati a emettere sentenza? Sarebbero perennemente costretti a indossare toghe inzaccherate di fango, e non sarebbe un bello spettacolo nelle aule di giustizia. Troppo facile, troppo comodo cavarsela così. E infatti c’è il denaro che resta il tema di fondo del nostro articolo.
Saranno fatte approfondite ricerche bancarie? Si indagherà sui capitali e le proprietà personali degli indagati in questione? Si cercheranno i loro fiancheggiatori, prestanome, amici larghi e amici stretti, parenti larghi e parenti stretti, come si fa per dar la caccia a Denaro e al suo denaro? E come si fa giustamente per centinaia e centinaia di altri mafiosi?  
Come? Noi siamo forcaioli? Può darsi. Ma come la mettiamo se si dovesse scoprire che un manipolo di magistrati, giudici, imprenditori confindustriali, "antimafiosi da parata", diedero per anni l’assalto alla diligenza che conteneva i "capitali" mafiosi che in nome dello Stato italiano erano stati confiscati per ben altre finalità sociali?
E come mai certi uomini politici, in mille occasioni così ciarlanti delle "responsabilità civile dei giudici", in questo caso stanno digerendo macigni ma non aprono bocca?
Neanche un talk show, neanche un’intemerata degli Opinionisti che in questi trent’anni ai magistrati "gliele hanno cantate chiare". Strano. Davvero molto strano. Persino buffo che stiano perdendo un’occasione tanto ghiotta per dire la loro. Nelle prossime settimane capiremo meglio.
Auguriamo a tutti di riuscire a provare la loro innocenza. Ma se dovessero risultare colpevoli, dovranno cacciare i soldi rubati, il maltolto, il bottino. Da qualche parte esisterà pure uno Stato capace di confiscare in casa dei confiscatori. Altro che trasferimenti in altra sede, altri incarichi direttivi… Non condannati a lavorare in campi di patate, per carità, ma quanto meno costretti a fare "opere di bene" con i soldi che speravano di avere messo al sicuro.

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