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23 dicembre 2011
Palermo. Il giallo del mancato rinnovo, a novembre del 1993, dei provvedimenti di carcere duro per 334 mafiosi è stato al centro della deposizione di Sebastiano Ardita, magistrato, per 10 anni direttore generale dei detenuti e del trattamento al Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria. Il teste, citato al processo al generale dei carabinieri Mario Mori, accusato di favoreggiamento alla mafia, ha raccontato ai giudici della quarta sezione del tribunale la misteriosa storia dei 41 bis lasciati scadere dall'allora ministro della Giustizia Giovanni Conso. Una decisione, tutt' altro che solitaria, quella dell'ex Guardasigilli, sempre pronto a rivendicarne la paternità esclusiva, che ebbe, invece, la sua genesi, secondo il magistrato, nel confronto serrato che ci fu sulla questione tra l'allora capo del Dap Adalberto Capriotti e via Arenula già a giugno del 1993. La questione è rilevante perchè secondo i pm proprio il 41 bis sarebbe stato uno dei punti oggetto della trattativa tra lo Stato e la mafia, trattativa di cui, sempre secondo la Procura, Mori sarebbe stato uno dei protagonisti. Sei mesi prima circa della scadenza dei provvedimenti, e ben prima dell'istruttoria formale che doveva decidere l'eventuale rinnovo, dunque, si stabilì che quei 41 bis non sarebbero stati prorogati. E questo conformemente - ha spiegato il teste - a quanto indicato in una circolare del Dap in cui, oltre al mancato rinnovo, Capriotti proponeva di limitare del 10% le applicazioni del carcere duro decise, dopo la strage di via D'Amelio, dall'ex Guardasigilli Martelli nei confronti di 500 mafiosi di alta pericolosità. Ardita ha anche sottolineato la singolarità della prassi con cui si fecero scadere i provvedimenti, prassi mai più ripetuta. L'ex dirigente del Dap, ora rientrato alla Procura di Catania, ha ricordato, inoltre, la lettera con cui, sempre nel '93, un gruppo di familiari di detenuti al 41 bis chiese con toni minacciosi all'allora capo dello Stato Scalfaro un attenuazione del regime carcerario duro. «La lettera - ha detto - era indirizzata a una serie di soggetti che poi direttamente o indirettamente sarebbero stati oggetto di attentati: da Maurizio Costanzo, al Papa (colpito, secondo il teste con la bomba a San Giovanni in Laterano), al vescovo di Firenze, città poi scossa dalle bombe dei Georgofili». Infine il teste ha raccontato un episodio, che indirettamente riscontrerebbe una notizia data da Massimo Ciancimino. Dopo l'arresto del boss Bernardo Provenzano la stampa pubblicò un articolo in cui si sosteneva che il figlio maggiore di Totò Riina, Giovanni, aveva commentato duramente l'arrivo del padrino di Corleone nel suo stesso carcere: quello di Terni. Ciancimino avrebbe raccontato la cosa, appresa da un uomo dei Servizi, ad un giornalista che la pubblicò. Ma la notizia, poi verificata da Ardita, che aveva deciso di mandare Provenzano nel carcere umbro, si rivelò falsa. Il teste ha ricordato un suo carteggio con la polizia penitenziaria in cui il Gom faceva pressioni per mandare il boss nell'istituto di pena de L'Aquila. Indicazione che il Dasp, invece, non osservò dal momento che in Abruzzo era detenuto nello stesso carcere il boss Piddu Madonia e quindi un contatto tra i due capimafia sarebbe stato possibile, ma che, rivista alla luce anche dell'articolo sulla falsa reazione di Riina jr, può far pensare a una manovra volta a determinare la sede carceraria del padrino di Corleone.

ANSA

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