Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

kashmir terrorUno psichiatra indaga i risvolti patologici del terrorismo e in un libro edito dal Corriere della Sera analizza i metodi di reclutamento del Califfato
di Marta Serafini
«Mi chiamo Muhammad Riad e sono un soldato del Califfato». Gela il sangue sentire un 17enne pronunciare queste parole mentre agita un coltello da cucina poco prima di salire su un treno con l’obiettivo di fare una strage. Ma chi è Muhammed Riad, un pazzo? Un folle cui il terrorismo ha offerto un pretesto per dare sfogo alla violenza? Ad analizzare Isis e il terrorismo da un punto di vista psicologico è lo psichiatra Corrado De Rosa, autore di “Nella mente di un jihadista”, Corsivo del Corriere della Sera in uscita in questi giorni.

Nizza, Orlando, Dacca. Il modello sembra consolidato, dopo la strage emergono dettagli sulla vita degli attentatori che ci portano a parlare di follia, come sottolineato anche dall’ultimo report di Europol e dal Corriere della Sera.

Ma davvero i terroristi sono pazzi di cui Isis riesce a servirsi? O si tratta di una semplificazione che rischia di portarci fuori strada?
«Dal punto di vista clinico è necessaria una premessa: bisogna valutare caso per caso. E, poiché gli autori degli attacchi per lo più vengono uccisi, abbiamo pochi elementi per studiarli. Detto questo, va sottolineato che il binomio tra violenza e follia esiste, ma in misura molto modesta. E aumenta in presenza di un abuso di sostanze. In realtà, sbaglia chi pensa di essere di fronte a persone non dotate di razionalità: più spesso odiano quelli da cui sono attaccati, si attengono a regole precise».

Che tipo di approccio psicologico si adatta meglio?
«La loro psicologia va letta in una logica di gruppo: è impossibile separare le condotte dei jihadisti dal contesto che le ha determinate. Uno dei loro meccanismi di difesa è la proiezione: odiano l’Occidente perché rappresenta il mondo da cui si sentono esclusi. Sono mossi da un narcisismo insano che spinge alla ricerca di gratificazione a tutti i costi».

Foreign fighters, combattenti, lupi solitari. Esistono delle differenze?
«Le motivazioni che portano all’arruolamento sono diverse, così come diversi sono i percorsi di radicalizzazione. Nel caso dei lupi solitari la componente patologica gioca un ruolo più significativo. Nei loro profili si mischiano rabbia distruttiva, stile di pensiero fanatico, depressione, odio, vuoto esistenziale. Si tratta di personaggi per i quali la motivazione religiosa è labilissima».

Scrive che i reclutatori in qualche modo praticano una sorta di screening per capire le differenze…
«È probabile. Dal momento che la richiesta di affiliazione va dal basso verso l’alto, il reclutatore deve valutare che tipo di persona ha davanti per decidere il da farsi. Il suo lavoro si fonda sulla graduale acquisizione di fiducia. L’obiettivo è comprendere le ragioni che spingono a partire, isolare e aumentare il senso di colpa dell’interlocutore. Aumentando l’asticella delle richieste, il senso di colpa di chi non ha ancora iniziato a combattere aumenta».

E per fare breccia quali tecniche vengono usate?
«Si fa leva sulle motivazioni esistenziali, tipiche della post adolescenza: incertezza, bisogno di appartenenza, bassa tolleranza alla frustrazione, senso di rivalsa o di ingiustizia. I reclutatori differenziano i bisogni e, in base ai punti deboli, intervengono. A chi è spinto dal desiderio di battaglia, mostrano scene di guerra girate come videogame per dire: “Quello che per voi è un gioco noi te lo facciamo fare”. Se capiscono che tra le ragioni c’è il desiderio di portare aiuto postano le foto dei bambini morti in Siria …».

Gli attentatori sanno di dover morire?
«Si, e ci sono differenze rispetto al passato. Secondo gli studi classici, il suicidio dei martiri di Allah sarebbe di tipo altruistico, cioè mirato a portare benefici alla società, oppure dovuto alle prescrizioni di una disciplina rigida. Il Califfato invece asseconda la fascinazione della morte per raggiungere i suoi scopi e sfrutta il suicidio per ridurre il rischio di fuga di notizie. Anche se, come è accaduto nel caso di Salah Abdeslam dopo gli attentati di Parigi, la volontà di morte può vacillare. Rispetto all’accettazione sociale del gesto, poi, oggi assistiamo a uno scollamento tra i desiderata dei martiri e quelli delle famiglie, in particolare quelle occidentali, che non comprendono le ragioni dei figli, né tantomeno approvano le loro scelte».

corriere.it

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos