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"Come è stato rilevato, l’art. 4 bis (ed il secondo comma all’art. 41 bis) hanno costituito (e costituiscono ancora oggi) l’emblema della lotta alla criminalità organizzata sul versante penitenziario. Per i condannati ai reati “di prima fascia”, infatti, la disciplina ha rappresentato il necessario e coerente pendant delle norme sostanziali e processuali che connotano l’intervento penale nel versante della criminalità organizzata. Entrambi, infatti, non sono affatto volti all’inasprimento delle condizioni di detenzione, non dunque carcere duro come qualcuno a volte erroneamente afferma". Così il Pg della Cassazione Giovanni Salvi nella relazione in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. "L’obiettivo delle preclusioni a taluni benefici e il controllo di ridotti contatti del detenuto con l’esterno furono istituiti come misure insieme di prevenzione speciale e generale - prosegue -. La finalità di evitare che il condannato per gravissimi delitti di criminalità organizzata potesse mantenere i contatti con l’organizzazione, addirittura dirigerla dal carcere o riprendere il ruolo apicale - rimesso anche temporaneamente in libertà, era fondata nelle caratteristiche strutturali delle organizzazioni di stampo mafioso, che prevedono, non come teorema accusatorio, ma come rilevazione di fatto basata su innumerevoli acquisizioni probatorie, che dalle mafie si esca solo con la morte, pena le più gravi sanzioni per sé e per i propri congiunti".

Foto © Imagoeconomica

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