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Si apre oggi davanti alla Corte d'Appello di Perugia, il processo di secondo grado per il caso Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, espulsa dall'Italia, insieme alla figlia Alua di 6 anni, nel 2013. La sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Perugia per competenza, aveva portato alla condanna a cinque anni e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici per Renato Cortese, all'epoca dei fatti capo della squadra mobile di Roma, Maurizio Improta, ex capo dell'l'Ufficio immigrazione. Cinque anni anche per i funzionari della squadra mobile romana Luca Armeni e Francesco Stampacchia, a quattro anni e tre anni e sei mesi per i funzionari dell'Ufficio immigrazione Vincenzo Tramma e Stefano Leoni. A questi imputati il Tribunale ha riconosciuto il reato di sequestro di persona. Condannata a due anni e mezzo, invece, l'allora giudice di pace Stefania Lavore. Gli imputati sono, allo stesso tempo stati assolti da altri capi d'imputazione come falso ideologico, abuso e omissione d'atti d'ufficio.
Alma Shalabayeva, la notte tra il 28 e 29 maggio 2013, venne prelevata insieme alla figlia dalla polizia dalla loro abitazione di Casalpalocco, una zona residenziale alle porte di Roma. Gli investigatori cercavano il marito, il dissidente Muktar Ablyazov, ricercato in campo internazionale per vari reati. La donna fu trovata in possesso di un passaporto falso e per questo venne avviata la procedura di espulsione che si concretizzò il 31 maggio del 2013. Secondo il Tribunale di Perugia si era trattato di un "rapimento di Stato". Per il ministero dell'Interno, invece, le procedure furono corrette. Il Viminale, nei giorni scorsi, rispondendo a un'interrogazione parlamentare del Pd, ha definito "regolare" l'espulsione di Shalabayeva e della figlia: chi aveva operato, non avrebbe conosciuto la vera identità della donna né ricevuto dalla stessa documentazione utile a identificarla o fatto richiesta di protezione internazionale.

Foto © Imagoeconomica

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