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«Certi toni di Di Pietro e del "Fatto" non mi appartengono»
di Giovanni Bianconi - 26 agosto 2012
«Io posso capire le semplificazioni giornalistiche, anche se non le amo, ma il fatto che le vicende delle ultime settimane siano ridotte a uno scontro tra la Procura di Palermo e il Quirinale, e ancor più tra il sottoscritto e il presidente della Repubblica, non solo non mi piace, ma non corrisponde in alcun modo alla realtà», dice il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Il quale prova a districarsi tra polemiche e scontri che — al di là di apparenze e strumentalizzazioni — hanno il loro fondamento nel conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato da Giorgio Napolitano nei confronti della Procura.

«Quello è un fatto, e ora sarà la Corte costituzionale a decidere — spiega Ingroia —. Noi riteniamo di aver agito correttamente e attendiamo sereni il giudizio della Consulta. Di certo però non penso nemmeno lontanamente che il presidente Napolitano si sia mosso con l'intenzione di attaccare la Procura di Palermo e fornire alibi a chi da tempo ci accusa delle peggiori nefandezze. Figuriamoci».
Il rispetto per la prima carica dello Stato il procuratore aggiunto l'ha ribadito anche ieri sulla prima pagina de l'Unità (che da mesi pubblica regolarmente i suoi articoli, con buona pace di chi ha accusato quella testata di «stalinismo» perché s'è schierata a difesa del Quirinale nella disputa politico-giornalistica), e qualcuno se n'è sorpreso. Ingroia invece chiarisce che non c'era da sorprendersi: «Da uomo delle istituzioni ho sempre avuto la massima considerazione della presidenza della Repubblica, da chiunque fosse rappresentata. In particolare, poi, so bene che il presidente Napolitano ha costituito, in questi anni di aspra contrapposizione, un caposaldo di tenuta istituzionale che ha scongiurato passaggi politico-legislativi che avrebbero danneggiato in modo forse irreparabile l'assetto costituzionale e di equilibrio tra i diversi poteri dello Stato».
Non solo. Proprio Napolitano ha affermato più volte la necessità di andare a fondo nella ricerca della verità sui misteri italiani, compresi quelli che ancora pesano sul biennio delle stragi mafiose, la stagione tra il '92 e il '94 lungo la quale si sarebbero dipanate le varie fasi della cosiddetta «trattativa» tra lo Stato e Cosa nostra. «Non dimentichiamo quel sostegno», insiste Ingroia che dell'indagine appena conclusa sulla «trattativa» è stato uno dei principali artefici. Ma poi aggiunge: «Le valutazioni di opportunità non spettano a me, però mi pare sia sotto gli occhi di tutti che il legittimo conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale è stato strumentalizzato per attaccare la Procura di Palermo. Cosa che ha determinato le reazioni politiche contro il Quirinale. A farne le spese, in ogni caso, sono le istituzioni, e questo non è un bene. Perché s'è surriscaldato ulteriormente il clima, con il rischio di creare nuove contrapposizioni e conflitti. Ho letto in qualche ricostruzione giornalistica che noi potevamo evitare di giungere al punto cui siamo arrivati. Io sinceramente non lo credo, penso che il nostro ufficio si sia mosso secondo le regole, e ora aspettiamo il verdetto della Consulta. Ma la cosa più importante è che di quei colloqui intercettati casualmente nulla doveva uscire e nulla è uscito. A prescindere dal fatto che il capo dello Stato si sia rivolto alla Corte costituzionale».
Di certo il procuratore aggiunto non s'è sottratto alle dispute, con interviste e interventi quasi quotidiani, ultimo in ordine di tempo quello contro il presidente del Consiglio Monti, dopo le sue considerazioni su presunti abusi nelle intercettazioni telefoniche. «Faccio notare che in quel caso ha protestato anche la sempre prudente Associazione nazionale magistrati, il che significa che qualche buona ragione l'avevamo», ribatte Ingroia che sostiene di aver parlato sempre per chiarire o difendere l'operato del suo ufficio (a parte gli interventi ai congressi di partito o ai comizi politici, che sono capitoli di un'altra storia). Il punto centrale resta l'uso politico delle inchieste giudiziarie, soprattutto quando lambiscono il potere di oggi o di ieri. Fino a dar vita al «populismo giuridico» denunciato da Luciano Violante: un blocco di partiti, movimenti e giornali (Di Pietro, Grillo e Il Fatto, nel caso specifico) che strumentalizza il lavoro della Procura di Palermo per attaccare Napolitano e Monti. Che cosa ne pensa Ingroia?
«Credo che nella battaglia politica sia tutto, o quasi tutto, legittimo — risponde il magistrato —, l'importante è che ognuno faccia correttamente il proprio mestiere. E che chi ha responsabilità istituzionali non si muova per fare da sponda alle dichiarazioni o rivendicazioni politiche. Ma io non posso esimermi dal fare indagini perché c'è il rischio che la mia attività venga strumentalizzata. Posso solo auspicare che ciò non avvenga, perché quello di cui oggi abbiamo meno bisogno è un conflitto tra istituzioni». Però avviene. Ma il procuratore aggiunto di Palermo non se ne sente responsabile: «Non voglio fare valutazioni politiche, né su quello che scrive Il Fatto, i cui lettori comunque ringrazio per la solidarietà che ci hanno manifestato, né su quello che scrive il Giornale. E nemmeno su ciò che dice l'onorevole Di Pietro o l'onorevole Cicchitto. Anche quando vedo e sento usare, da quelle testate e dai quei parlamentari, toni ed espressioni che non sempre condivido e non mi appartengono. Tuttavia, come non mi sogno nemmeno di immaginare che il Quirinale sia ispiratore o complice di chi ha usato il conflitto di attribuzione per attaccare la Procura di Palermo, vorrei che la Procura di Palermo non venisse ritenuta parte di disegno finalizzato a colpire il Quirinale o qualcun altro. Semplicemente perché certe manovre e strategie non ci appartengono. Non c'entriamo. Un conto sono le istituzioni e le loro legittime iniziative, un conto sono le battaglie politiche che utilizzano, a volte strumentalmente, quelle iniziative. È successo, e temo purtroppo succederà ancora. Ma ciascuno resta responsabile solo delle proprie azioni, non di quelle di chi cerca di utilizzarle nella battaglia politica».

Tratto da: Il Corriere della Sera

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