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di Alberto Momo - 20 settembre 2014
Incontro su «Belluscone. Una storia siciliana», ora nelle sale, il miglior film italiano dell’anno, e che sorprendentemente non era in concorso a Venezia
La voce di Franco Mare­sco arriva al tele­fono da Palermo, in una mat­tina di set­tem­bre. Nei rumori di fondo sem­bra di per­ce­pire il vento, e di intra­ve­dere una spiag­gia. Ma forse è solo una sug­ge­stione, o la memo­ria di un’immagine che com­pare nel suo ultimo film Bel­lu­scone. Una sto­ria sici­liana.
Dalla sua isola, che sem­bra molto più di una regione, Franco Mare­sco con­ti­nua a rac­con­tare delle para­bole, pic­cole sto­rie morali. Come già aveva fatto nel quasi sco­no­sciuto, e bel­lis­simo, Io sono Tony Scott.
Lo fa guar­dando in fac­cia la realtà - qual­siasi signi­fi­cato possa avere que­sta parola, oggi. Si mette di fronte a dei corpi e li inter­roga, cer­cando quello che è rima­sto dell’umanità. Ci affa­bula, e ci diverte. Ci con­duce in maniera sor­pren­dente, in luo­ghi che a volte non vor­remmo cono­scere. Con un suo ter­mine: ci devasta.
Chi ha corag­gio, a que­sto punto, può con­ti­nuare a leg­gere le righe che seguono. E cor­rere a vedere il suo film.

Nel film sei un regi­sta scom­parso, dun­que non sap­piamo dove sei e cosa tu stia facendo. Ma come hai vis­suto que­sti ultimi giorni, a par­tire dalla pre­sen­ta­zione del film a Vene­zia, dove comun­que hai pre­fe­rito non andare, asse­con­dando in qual­che modo la tua messa in scena?
Male. Ho vis­suto male que­sti giorni, a disa­gio. Per­ché per uno che non è abi­tuato a que­sta espo­si­zione, a que­sto tipo di espo­si­zione che, se non è pari a quella di Totò che visse due volte, è comun­que abba­stanza evi­dente, tutto que­sto mette a disa­gio. Non la vivo bene. Per­ché è il mio carat­tere, e per­ché in ogni caso non mi piace la folla. E comun­que essere al cen­tro di un dibat­tito, anche lad­dove ci sono momenti posi­tivi, spesso affet­tuosi, di soste­gno, mi mette sem­pre a disa­gio. Anche per­ché ho natu­ral­mente dei detrat­tori. E ho spesso anche esal­ta­tori che loro mal­grado con­tri­bui­scono a far incaz­zare di più i detrat­tori, che non sop­por­tano que­sto incensamento.
E inol­tre spesso non si cen­tra, e que­sto è forse colpa mia, quello che in realtà il film è. Devo dire però, ad onore del vero, di aver letto anche delle cose molto vicine a quello che io pen­savo, e che quindi in qual­che modo hanno cen­trato il senso di quello che nelle inten­zioni era il mio obiet­tivo, quello che volevo fare.

Forse è stato pro­prio il titolo ad aver sviato le let­ture più pigre. Quando uno poi vede il film, si chiede se vera­mente è Ber­lu­sconi, detto in ita­liano, il sog­getto del film, o se invece Bel­lu­scone sia già qualcos’altro. Se tu dovessi dire quale è il sog­getto del tuo film, come lo racconteresti?
Ecco, appunto: il sog­getto del film si è spo­stato. C’è uno spo­sta­mento. Per­ché dopo una par­tenza, che è durata alcuni mesi, per cui, per dirla con te, il sog­getto era Ber­lu­sconi, suc­ces­si­va­mente il sog­getto è diven­tato Bel­lu­scone. E que­sto spo­sta­mento, anche let­te­rale, che se fos­simo in musica diremmo spo­sta­mento d’accento, natu­ral­mente spo­sta il senso. Come quando tu togli un sas­so­lino o un legnetto e viene giù la valanga, viene giù la mon­ta­gna. Dun­que il senso è com­ple­ta­mente sal­tato, rispetto a Ber­lu­sconi, e il sog­getto è Bel­lu­scone, con le due elle alla palermitana.
Per dirla come si diceva nel lin­guag­gio del jazz di tanti anni fa, di quando insomma i musi­ci­sti improv­vi­sa­vano su una can­zone, improv­vi­sa­vano su quello che nel lin­guag­gio tec­nico degli appas­sio­nati si chiama
stan­dard. Alla fine, senza fare con­fronti, se uno pensa, non so, a un Char­lie Par­ker, que­sto prende uno stan­dard e poi su que­gli accordi, o su quelli di base, ne aggiunge altri die­ci­mila, e die­ci­mila altre sfa­sa­ture, rit­mi­che, armo­ni­che. E diventa un’altra cosa. Ber­lu­sconiBel­lu­scone è una can­zone, uno stan­dard. Per me era una varia­zione sul tema, se doves­simo usare il lin­guag­gio della musica clas­sica. Ma se invece usiamo quello del jazz, che a me è quello che piace di più, è un’improvvisazione su que­sta can­zone ormai trita e ritrita. Per molti jaz­zi­sti peral­tro, c’era l’equivalente di Bel­lu­scone nelle can­zo­nette ame­ri­cane. Loro ave­vano la capa­cità poi, se ci riu­sci­vano, se erano bravi, di tirare fuori anche dalla melo­dia più melensa, più scema, delle cose strepitose.

Come ogni tuo film, anche se mi ver­rebbe da dire vostro, già prima quando lavo­ravi in cop­pia con Daniele Ciprì, è un film dif­fi­cile da codi­fi­care, pro­prio come ora ci rac­con­tavi tu. E nono­stante sia dif­fi­cile pen­sare di asso­ciarlo a un genere, a me ha fatto pen­sare molto alla com­me­dia all’italiana, o a una sua sorta di tra­du­zione attuale. Nel senso anche banale che è un film dove si ride molto, e però poi ti rimane la per­ce­zione di tro­varti den­tro a una tra­ge­dia di dimen­sioni epiche.
E’ una coin­ci­denza curiosa. Ma poi è la vita che è fatta di coin­ci­denze curiose, per chi ci crede è il destino, per chi ci crede è fato… Mah, forse il fato in que­sto caso è fin troppo! Diciamo che il destino, o la coin­ci­denza curiosa, se uno vuol essere più laico e razio­nale, è che guarda caso que­sto set­tem­bre è uscito il mio film — il 4 peral­tro, il giorno di santa Rosa­lia qui a Palermo. E mi pare che in set­tem­bre esca anche il film di Daniele. E guarda caso tu parli adesso di com­me­dia. E in realtà c’è, almeno nel mio film, que­sta filia­zione. Sicu­ra­mente da un genere che era la com­me­dia, quella dei Risi, dei Moni­celli… Forse un po’ più Risi, che Moni­celli, seb­bene poi ci siano cose di Moni­celli di cat­ti­ve­ria, anzi, strepitosa.
E guarda caso par­liamo di com­me­dia. E men­tre io rea­lizzo un pastic­cio — un film, come dici tu, inclas­si­fi­ca­bile e che è molto dif­fi­cile far rien­trare in un codice, in un genere, e comun­que se uno dovesse ten­tare, quello più vicino, in qual­che modo più pros­simo, è la com­me­dia — guarda caso invece Daniele… C’è la matrice di cui tu par­lavi, a cui facevi rife­ri­mento, Cinico tv, i film ecce­tera. Ma c’è poi una bifor­ca­zione, c’è una divi­sione. Per­ché Daniele rea­lizza, mi pare, con il suo film La buca, una com­me­dia più ame­ri­cana… Per­ché di ita­liano mi pare abbia poco. Per­ché se non sba­glio, avendo letto la trama, mi pare sia una spe­cie di remake tutto ita­liano di Non per soldi ma per denaro. E però i toni mi sem­bra siano quelli della com­me­dia. Anche se ora non ho voglia di par­lare di un film che non ho visto (anche per­ché poi non vado al cinema da troppi anni) e forse non vedrò se non suc­ces­si­va­mente, in qual­che modo. Sì, sicu­ra­mente sarà una cosa curiosa: da una matrice, da una sor­gente che fu quella dei nostri anni più felici dal punto di vista crea­tivo, ci sono poi due svi­luppi total­mente diversi.
E quindi sì, diciamo che c’è una estre­miz­za­zione, un ante­fatto che potrebbe essere visto, rivi­sto e ritro­vato e cer­cato ne
I mostri di Dino Risi, in quel tipo di cat­ti­ve­ria, che peral­tro era molto lun­gi­mi­rante. Quando si dice di quello che è stato Ber­lu­sconi, o dei vent’anni di ber­lu­sco­ni­smo e bla bla bla, basta andare a guar­dare un film di que­gli anni per ren­dersi conto che Ber­lu­sconi c’era già. E non solo nei vari Sordi, nei vari Tognazzi, ma pro­prio in quel genere di cial­tro­ne­ria. Basta guar­dare gli epi­sodi de I mostri, per vedere pro­prio l’antropologia di Ber­lu­sconi. Quindi Ber­lu­sconi, ancora una volta, e uno lo ripete fino alla nau­sea, non è la causa, ma è sem­pli­ce­mente la ricon­ferma di un destino antro­po­lo­gico di una realtà nella quale non è un caso che gli ita­liani si sono poi rico­no­sciuti. Tra l’altro è anche banale fare l’accostamento già con il pre­ce­dente ven­ten­nio, quello del duce. E’ un’Italia che è sem­pre quella, natu­ral­mente si va aggior­nando, ma la base rimane quella, insomma.

Tempo fa il regi­sta Robert Kra­mer mi disse che secondo lui un bel film è un film che rac­conta anche la sto­ria del film che si fa. Que­sto in Bel­lu­scone mi sem­bra sia quasi esem­plare. Quanto è diverso il film che abbiamo visto noi dal tuo pro­getto ini­ziale? Sap­piamo che è un film che ha avuto un’avventura sia crea­tiva che pro­dut­tiva abba­stanza lunga. E molto lo cono­sciamo dal film stesso, anche se non sap­piamo bene cosa sia vero e cosa invece falso. Molti hanno par­lato per que­sto di Wel­les, o di F for fake, o comun­que di que­sto genere di dispo­si­tivi. Bel­lu­scone all’inizio era forse più Ber­lu­sconi, e poi è diven­tato invece Bel­lu­scone.
La dif­fe­renza è come quella che c’è tra il giorno e la notte: era total­mente un’altra cosa il film all’inizio. Il film all’inizio era poi, come sem­pre, come mi è suc­cesso in que­sti anni, il ten­ta­tivo di met­tere insieme un lavoro che doveva essere molto breve, una cosa veloce. Ber­lu­sconi stava ancora al governo, e doveva essere una cosa tele­vi­siva, una cosa che si potesse ven­dere insomma, che si potesse far girare e avere, come dire, qual­che soldo.
In realtà poi, strada facendo, pre­vale sem­pre il carat­tere, pre­vale sem­pre quello che tu hai den­tro. Ci sono cose che non rie­sci ad accet­tare, cose che vedevo e che non mi pia­ce­vano. Io nel bene o nel male ho biso­gno di cer­care una mia chiave, una let­tura ori­gi­nale. In quel caso mi ritro­vavo a dire intanto delle cose, che pote­vano essere un appro­fon­di­mento di quello che i gior­na­li­sti d’inchiesta già dice­vano — metti Tra­va­glio, metti San­toro o altri gior­na­li­sti, che sia sulla carta stam­pata sia in tele­vi­sione hanno fatto per anni appro­fon­di­menti, hanno fatto que­sto tipo di inda­gine, que­sto tipo di ricostruzione.
Comun­que già all’inizio c’era una parte di satira, e in que­sto senso, stra­na­mente, il film era ancora più vicino a quello di Sabina Guz­zanti che non al mio. Ma alla fine la mia natura è pro­prio così, ed era già così quando ero ragazzo, quando uno pro­vava a scri­vere… A tutti è capi­tato di scri­vere una poe­sia. Di scri­vere qual­che cosa o di suo­nare qual­che cosa.. di troppo. Non so, io avevo una spe­cie di demone — che mi fa pren­dere le cose e che me le fa get­tare, che me le fa schi­fare, che me le fa appal­lot­to­lare, mi fa chiu­dere il pia­no­forte — che quindi inter­viene, e quindi io viro verso il comico. E’ la mia natura: chia­mala se vuoi grot­te­sco, anche se per me comico è uguale. E’ la stessa cosa che dire tra­ge­dia, insomma. Dopo­di­ché non ci riu­scivo, e sen­tivo che non stavo facendo niente, non stavo dicendo niente di mio. E quindi a quel punto lì poi… l’incontro con Cic­cio Mira e … E’ andata come è andata. Si è rifatto un altro tipo di film.

Infatti, e que­sta è, pro­metto, l’ultima cita­zione. Par­lando con regi­sti, ci è capi­tato spesso di sen­tirci dire — dav­vero da molti, tanto che Raoul Ruiz parla di pas­sag­gio di con­se­gne — che a un certo punto, facendo un film, ti rendi conto che è il film stesso che deve imporsi. Che è esso stesso che ini­zia a farsi. Vedendo il tuo film que­sta era un’impressione che si aveva fortissima.
Diciamo che è vero. Sta­mat­tina qual­cuno mi leg­geva, o mi scri­veva, una pic­cola tra­du­zione o una sin­tesi, di un paio di arti­coli che sono usciti su rivi­ste fran­cesi. Per­ché la domanda e la curio­sità che mi veniva, ma io peral­tro la rispo­sta me la do già, era che cosa potesse apprez­zare il pub­blico e la cri­tica stra­niera rispetto a que­sto film. Natu­ral­mente io spero per le sorti pro­dut­tive (ride)… Ma temo capi­sca poco: dalle cose che leg­gevo, che peral­tro ave­vano un apprez­za­mento, temo poco. Anche se poi devi met­terci la tra­du­zione ecce­tera eccetera.
In que­sto senso mi ha fatto pia­cere, e que­sta è una pic­cola diva­ga­zione, che uno dei com­po­nenti della giu­ria di
Oriz­zonti, David Chase, che è que­sto autore/produttore dei Soprano, lo leg­gevo in un’intervista su Il mani­fe­sto, ha detto che aveva tro­vato molto bello il film di Franco Mare­sco. E non mi stu­pi­sce per le sue ascen­denze ita­liane: in qual­che modo ha visto più di quanto possa farlo uno straniero.
Detto que­sto, per me que­sto è un film che natu­ral­mente ha a che fare con Palermo, e quindi natu­ral­mente la gente mi dice: usciamo dalla sala con l’amaro in bocca, usciamo ango­sciati… L’altro giorno una mia amica mi scri­veva: non ho dor­mito, ho avuto incubi, ma è pos­si­bile vera­mente che Palermo sia la città che tu descrivi e che io non mai voluto nem­meno accet­tare per otti­mi­smo forse troppo inge­nuo e per­dente? Quindi c’è que­sto aspetto. Ma in realtà per me que­sto film è legato al pre­ce­dente, che pochi cono­scono, quello su Tony Scott. E a sua volta quello era legato a 
Caglio­stro.
Quindi una spe­cie di tri­lo­gia, che nei fatti non volevo… Ma capita poi di fare una rifles­sione a poste­riori, e ci si accorge invece di come si dipani un filo da tutte le cose. Con esiti natu­ral­mente diversi. Però il discorso di base rimane sem­pre quello. In Tony Scott c’era sì l’amore per il jazz, la grande fasci­na­zione che emana un per­so­nag­gio come Tony Scott, la sua musica, ma soprat­tutto era un film sulla sorte che lui ha avuto come arti­sta dal mondo contemporaneo…

e in par­ti­co­lare da quello italiano…
Eh sì, da quello ita­liano alla fine di un secolo. Per me era impor­tante la rifles­sione sull’impossibilità di fare arte. Nel caso suo era la musica. Nel caso spe­ci­fico di que­sto film, mi ripeto, il pre­te­sto era come una can­zone, ma in realtà è una rifles­sione sull’impossibilità di fare, non so se arte, ma di sicuro di met­tere in forma un’idea di cinema. E quindi voleva dire met­tere in gioco anche la pro­pria, se vuoi, impo­tenza, ango­scia e presa d’atto rispetto a que­sta condizione.
Quindi, ora qual­cuno potrà dire: quante volte il cinema è morto ecce­tera ecce­tera. Ma natu­ral­mente non sono morte le imma­gini, anche se per me di fatto lo sono. Ma è ovvia­mente un’idea di cinema che è sparita.
Il film quindi di fatto con­ti­nua ad essere il film del com­miato, con­ti­nua ad essere sem­pre il cinema del com­miato. E ovvia­mente si porta die­tro una serie di fini, o di fine. Di finali. E quindi Cic­cio Mira, i quar­tieri che spa­ri­scono, quindi spa­ri­sce anche un’ispirazione. Spa­ri­sce un’umanità. E dun­que ecco la con­trap­po­si­zione neomelodico/giovane di un Ric­ciardi, o di un Erik, con Cic­cio Mira. Che non a caso nel film è sem­pre in bianco e nero (tranne quando è in tele­vi­sione per i fatti suoi). Ed è un colore che scende, che sem­bra più un Fer­ra­nia… E’ chiaro che è que­sto l’aspetto principale.

E qui viene fuori anche il carat­tere auto­bio­gra­fico, lo spec­chio del film. Anche quando tu dici che non si può fare arte in Ita­lia, siamo in tanti a vedere degli auto­ri­tratti, come già in Tony Scott.
L’autoritratto c’è sem­pre. Una volta si diceva se si doveva sepa­rare l’opera d’arte, o comun­que il lavoro o il film o quello che è, dalla vita. La mia è forse una con­ce­zione evi­den­te­mente roman­tica, nel senso pro­prio sto­rico, ma… non puoi sepa­rare per esem­pio la malat­tia, a volte il disturbo men­tale, la malat­tia fisica, la vita, da quello che fai. Sì, poi pro­ba­bil­mente ci sono delle ecce­zioni. Uno ascolta la sonata n.19 di Mozart, per dirne una, che viene scritta poco prima di morire, quando que­sto era deva­stato. E se uno ascolta, e non sa nulla di Mozart, dirà che c’è tutto tranne che il dolore per la fine pros­sima. Non so se sono d’accordo, ma mi ricordo di aver letto que­sta cosa che scri­veva un grande musi­co­logo. Invece io credo – ed è così pro­ba­bil­mente per noi con­tem­po­ra­nei, noi più vicini ai moderni — che que­sta iden­ti­fi­ca­zione ci sia, e che da Bau­de­laire in poi insomma, con la nascita della moder­nità, diventi più evidente.
Que­sto scri­via­molo pure, ma per tor­nare a cose più terra terra, quali il mio film, che è una cosa vera­mente mode­sta, c’è sem­pre stato que­sto auto­ri­tratto, anche in Cinico Tv, in qual­che modo. Poi via via si è sve­lata sem­pre più diret­ta­mente que­sta parte auto­bio­gra­fica, che però già c’era anche in una cosa che dura tre minuti o ses­santa, dove tu metti, riversi, riveli le tue osses­sioni. Riveli pro­prio il males­sere con­tin­gente, quello che ha cause con­tin­genti e non astratte. Se uno lo vede a poste­riori, chia­ra­mente ha una serie di indizi, di rico­no­sci­menti, di dati che allun­gano que­sto film, che met­tono insieme que­sti pezzi. Via via c’è stato que­sto disvelamento.

Anche tu sei in bianco e nero, nel film, come Cic­cio Mira…
Beh, que­sto è vero rela­ti­va­mente… No, nella parte finale… Per­ché invece ci sono due o tre cose, una …

quando entri in campo durante l’intervista…
O quando con Tatti c’è la ten­dina… Sì, però nel finale c’è que­sto bianco e nero di Bigazzi, un super8…

Il finale è forse una delle cose più deva­stanti del film, diciamo le ultime tre scene: gli estratti tele­vi­sivi di Renzi e la suora, le inter­vi­ste durante i titoli di coda, e l’ultima scena di Erik con la rosa, o il fiore, per Bontate.
Diciamo di sì. Pro­ba­bil­mente la parte, e lo rico­no­sco anch’io, più malin­co­nica, più cupa, più pes­si­mi­sta, è quella dove c’è una presa di coscienza di un’impossibile ria­bi­li­ta­zione. Come diceva il buon Scia­scia: di una prova pro­vata defi­ni­tiva di una irredimibilità.
E devo dire che io one­sta­mente non credo alla bontà degli essere umani. Essendo uno che ama molto i cani, gli ani­mali – ad esem­pio que­sta sto­ria dell’orso: que­sti qui che danno la cac­cia all’orso in Tren­tino e che è uno schifo, una cosa… Ci vor­reb­bero cento orsi per deva­stare que­sti bastardi! – quindi io che amo i cani, vedo negli occhi dei cani, quanto di meglio la natura abbia dato, vedo vera­mente la mise­ria dell’uomo. Un tizio una volta ha scritto, ma più di uno, che nello sguardo dei cani c’è pro­prio la com­mi­se­ra­zione, la pie­tas per l’uomo. Ma io che non ci credo alla bontà degli esseri umani, que­sta cosa ce l’ho fatta entrare lì. E anche lì c’è poi una sorta di pie­tas, una sorta di dispe­rata, per­fino, com­pas­sione. Ma alla fine uno tira fuori quello che vuole, la legge come vuole.

Mi hai fatto pen­sare all’asino di Bresson.
Esatto. E peral­tro quello è uno dei pochi film che io non rie­sco a vedere (Au hasard Bal­tha­zar, ndr).

Nel senso che ti fa stare troppo male?
Ma no, asso­lu­ta­mente. C’è l’asino, deva­stato… Ma no, è un fatto vero, pro­prio non ci rie­sco. Sem­bra strano ma non ci rie­sco. Anche se è un film straor­di­na­rio, forse pro­prio il film più spie­tato, più lucido, la rifles­sione più lucida sulla cat­ti­ve­ria dell’uomo. Asso­lu­ta­mente. Quella è inar­ri­va­bile, da que­sto punto di vista.
Però pur­troppo io non rie­sco a cre­dere nella sop­pri­mi­bi­lità del male, a que­sto non ci credo, non lo so… Non so cosa suc­ce­derà quando, come dicono i soliti geni dell’informatica, quando i com­pu­ter arri­ve­ranno alla sin­go­la­rità, e quindi ci saranno que­sti esseri nuovi, e si for­me­ranno nuove coscienze. Non so lì cosa suc­ce­derà. Anche se penso che ci saranno intel­li­genze arti­fi­ciali che faranno il male, che pra­ti­che­ranno il male. Allo stato attuale puoi dare tutto quello che vuoi all’uomo, lo puoi ibri­dare con la tec­no­lo­gia, lo puoi ren­dere più ricco, ma rimarrà sem­pre la merda che è sem­pre stato. Non c’è niente da fare: non si libera dal male. Libe­raci dal male! Non si libera dal male. Que­sto è il punto. Par­las­simo di Totò che visse due volte… Ma par­lare in que­sto film di meta­fi­sica, di mas­simi sistemi, mi pare un po’ esa­ge­rato. Però get­tia­mola lì, tanto ormai…

Come hai incon­trato Cic­cio Mira? Sei par­tito dalla can­zone che avevi scoperto…
No, io Cic­cio Mira lo cono­scevo da vent’anni. Fa anche un’apparizione nello Zio di Broo­klyn.

Ah ecco, lo dicevo per­ché in effetti c’è una rela­zione straordinaria.
Lo cono­sco da una vita, lui per me è straor­di­na­rio. Poi devo dirti che è all’antica, quindi fedele all’amicizia. Dio ci guardi dai ren­ziani, Dio ci guardi da que­sta Ita­lia, da que­sto mondo, come leg­gevo que­sta mat­tina, in cami­cia bianca. Da que­sto mondo dalle belle mini­stre. E da que­sta uma­nità, min­chia. Dio ci guardi da que­sto. Ci vor­reb­bero mille, due­mila o die­ci­mila Renzi, o die­ci­mile mini­stre e mini­stri per fare un solo Cic­cio Mira! Pro­prio dal punto di vista della ric­chezza umana.

Rispetto ai tuoi com­plici soliti, del tuo lavoro pre­ce­dente, si sente anche il fatto che incon­tri un’umanità che non è quella solita, che ami.
Que­sta è una cosa che mi pare abbia scritto Andrea Inze­rillo, che è un palermitano…

Sì, infatti, l’ho vista…
Dice che si vede che Mare­sco non ama i suoi per­so­naggi… Ed è vero. Non li odio, non li dete­sto, non li disprezzo, però non c’è nes­sun fee­ling, non c’è nes­suna forma di amore nei loro con­fronti. Pro­prio per­ché li sento ormai altro. C’è una linea di demar­ca­zione tra loro, me, e per­fino Cic­cio Mira. Li trovo pro­prio, nel senso let­te­rale del ter­mine, mostruosi, li trovo terrificanti…
Però, ripeto, c’è anche sem­pre in fondo que­sta pie­tas, c’è volendo anche una forma di com­pas­sione, però … fanno paura. Se devo dire la verità, fanno paura. Ma non che fanno paura, come se uno si mette a vedere.… Ma pro­prio se ci stai vicino. Se li guardi negli occhi, se li vedi nel loro quo­ti­diano. Fanno paura pro­prio per la loro incon­sa­pe­vo­lezza. Fanno paura per la loro inco­scienza, per la loro totale man­canza di auto­co­scienza. E’ ter­ri­bile. Sem­brano vera­mente ultra­corpi.

Quello che mi sem­bra invece una forma tua di resi­stenza, e uno dei fuo­chi del tuo cinema, resta pro­prio l’esposizione dei corpi. E in que­sto senso, ho tro­vato di una tra­spa­renza di espo­si­zione for­tis­sima come hai pre­sen­tato que­sti nuovi corpi.
Sì, per­ché comun­que ancora con i corpi ti rela­zioni. Vale anche per que­sti ragazzi iper­ta­tuati. La cosa che dicevo che ti fa paura, o che ti mette una certa pena, è il fatto di vedere volti che sono volti del Sud. Che ne so, Ric­ciardi è di Erco­lano, Erik è natu­ral­mente di Palermo, di una fra­zion­cina di Palermo, Vil­la­gra­zia. Vedi que­sti gio­vani, vedi le ragaz­zine che can­tano Can­cel­letto, non so come si chiama, una cosa deli­rante. Vedi que­ste facce. E se le guardi da vicino, ti rendi conto che sono le facce del Sud.
Per for­tuna vedi anche que­sto grasso che deborda, que­sti culi enormi. Vedi ancora tracce, almeno nei corpi, di un essere umano che però si avvia ad essere altro, e quindi è un ibrido. Diven­tano una cosa mostruosa, pro­prio per­ché vedi corpi, e nel frat­tempo teste, e nel frat­tempo sguardi, che rara­mente hanno lampi di vera, di vera, auten­ti­cità. Men­tre se tu guardi Cic­cio Mira, lo guardi negli occhi bene, vedi l’autenticità, vedi l’uomo. Quando guardi que­gli altri, vedi che nella testa hanno Canale 5, hanno Maria De Filippi, hanno
Amici, hanno you­tube, hanno face­book. Vera­mente hanno niente.
E’ que­sta la cosa che ti fa toc­care con mano que­sta mostruo­sità: que­sti ibridi, que­sta coe­si­stenza nei corpi che comun­que si por­tano die­tro le tracce di che ne so, di arabi, di nor­manni, di quello che siamo stati. E que­ste facce, poi. Così for­mate alla maniera tutta meri­dio­nale. E poi invece vedi que­sti occhi, que­ste facce, que­sti sor­risi, tutto come se fos­sero in una spe­cie di con­nes­sione con­ti­nua, o comun­que di ripresa. Qual­che cosa come un rea­lity show: vivono come se fos­sero inqua­drati sem­pre a favore di video­ca­mera, di tele­fo­nino… E’ una cosa agghiac­ciante. Que­sto orrore che peral­tro livella tutto. E quindi rende uguali ber­ga­ma­schi e catanesi…

E’ un discorso appunto paso­li­niano da una parte…
In que­sto senso c’è in me una con­sa­pe­vo­lezza paso­li­niana, anche fin troppo evi­dente. Cioè di que­sti delle bor­gate che nel frat­tempo hanno tatuati, smart­pho­niz­zati, quello che vuoi… E’ chiaro che que­sto è l’estremo discorso che Paso­lini aveva così tra­gi­ca­mente pro­fe­tiz­zato. Ma è anche banale dir­telo. E’ anche così banale sot­to­li­nearlo, così sciocco…

Allora fac­cio una domanda quasi gior­na­li­stica. Doves­sero uscire tutte le inter­vi­ste che hai fatto (para­fraso una domanda che fai in uno dei momenti forse più incre­di­bili del film, cioè nel tuo incon­tro con Mar­cello Dell’Utri) cosa suc­ce­de­rebbe? Si vedrà mai qual­cosa di que­ste inter­vi­ste, o quello che è rima­sto fuori è solo un mate­riale che ha par­te­ci­pato alla costru­zione del film e che, in un certo modo, scom­pa­rirà? Per­ché chia­ra­mente viene la curio­sità di vedere que­sti incontri…
Sì, c’è una quan­tità enorme di inter­vi­ste. C’è una quan­tità enorme, ma pro­prio enorme, di con­ver­sa­zioni tra me e Cic­cio Mira. Ci sono cose molto divertenti.
Ce n’è una in par­ti­co­lare che è rima­sta fuori e che dura un minuto e mezzo, due minuti, ma che è una cosa esi­la­rante, in cui si mette insieme, e sem­bra strano a dirsi, un discorso sull’essere (è pos­si­bile pen­sare al niente?) e l’omertà, e il silen­zio di fronte ai cara­bi­nieri dopo un omi­ci­dio. Una cosa in cui secondo me Cic­cio Mira supera… Che se uno fosse un filo­sofo, e sem­bra banale dirlo, met­tere inseme Par­me­nide… Per­ché è que­sta la cosa. Tu dici — Si può pen­sare al niente? A cosa stai pen­sando? E lui dice — A niente. — Ma come fai a pen­sare a niente? E qui lui si uni­sce a — Come quando tu dici ai cara­bi­nieri che ti chie­dono: cosa è suc­cesso? Tu: non è suc­cesso niente niente. Come lui ci arriva è una cosa che nem­meno il più biz­zarro e crea­tivo dei filo­sofi o degli sto­rici della filo­so­fia poteva riu­scirci. Eh, Cic­cio Mira c’è riu­scito. Que­sta è una cosa che ci ter­rei a fare.

Allora man­te­niamo le speranze…

Tratto da: ilmanifesto.info
   

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