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scarantino via damelio effdi Aaron Pettinari
La Corte d'assise di Caltanissetta aveva dichiarato prescritto il reato perché “indotto” a mentire

Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna che si era autoaccusato falsamente del furto della Fiat 126 utilizzata per la strage di via d'Amelio ed aveva anche coinvolto altri soggetti innocenti nell'attentato, per la Corte d'assise di Caltanissetta, è stato “indotto” a commettere il reato da alcuni apparati di Polizia. Per questo motivo il 20 aprile 2017 la Corte aveva dichiarato il “non doversi procedere per pervenuta prescrizione in ordine al reato di calunnia pluriaggravata” riconoscendo la circostanza attenuante dell’art.114 terzo comma. I contorni di quello che è stato definito come “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana” sono stati poi tracciati nelle motivazioni della sentenza depositate lo scorso luglio.
Motivazioni in cui vengono messe in luce i condizionamenti, le forzature, le contraddizioni ma anche quelle dichiarazioni dello Scarantino che, "pur essendo sicuramente inattendibili, contengono elementi di verità".
Così come aveva fatto durante la propria arringa, il difensore di Scarantino, Calogero Montante chiede che nei confronti del suo assistito vi sia un'assoluzione piena “perché il fatto non costituisce reato”, stante la scriminante dello stato di necessità. Per questo motivo ha deciso di appellare la sentenza. 
Il legale di Scarantino è d'accordo con l'analisi dei giudici di primo grado quando evidenziano che “gli elementi di prova raccolti valgono certamente a dimostrare che il proposito di rendere dichiarazioni calunniose venne ingenerato in lui (Scarantino) da una serie di attività compiute da soggetti, come i suddetti investigatori, che si trovavano in una situazione di supremazia idonea a creare una forte soggezione psicologica”. E proprio quella fragilità psicologica di Scarantino, acuita dalle false dichiarazioni rese dagli altri due “falsi pentiti”, Candura ed Andriotta, è tra gli elementi che vengono valutati per giungere al riconoscimento delle circostanze attenuanti. 
A questi si aggiunge l'insorgere “di un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, i quali esercitarono in modo distorto i loro poteri con il compimento di una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di un’impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per l’esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte”. Ma la Corte, a detta del legale, compie una valutazione errata sia “sul piano oggettivo che su quello soggettivo”.
Così non viene condivisa la valutazione per cui “le concrete circostanze e le modalità esecutive delle condotte tenute dallo Scarantino denotano con chiarezza la sua consapevolezza dell’innocenza delle persone accusate, mancando ogni elemento oggettivo suscettibile di ingenerare concretamente ragionevoli dubbi al riguardo”.
Infatti, secondo Montante, i giudici non hanno tenuto conto del fatto “che è proprio in virtù di quella stessa pervicace opera di pressione e di indottrinamento esercitata nei suoi confronti dagli Inquirenti, pur riconosciuta come base argomentativa dell’attenuante dell’'induzione', che lo Scarantino venne costretto a dare inizio alla falsa collaborazione; e ciò avveniva allorquando, dopo un lungo periodo di detenzione connotato da molteplici vessazioni fisiche e morali, Scarantino comprendeva di essere stato 'incastrato' e di non avere altra via d’uscita che quella di cedere al pactum sceleris che gli veniva imposto dagli Inquirenti (…) Solo a seguito delle molteplici minacce e vessazioni fisiche e psichiche di cui si è data prova nel corso del dibattimento, e ciò al fine di risparmiare a sé ed ai propri cari il pericolo attuale di un danno grave, non altrimenti evitabile”.
Per questo motivo, dunque, vengono ravvisati gli estremi della scriminante dello “Stato di necessità”.

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Arnaldo La Barbera © Imagoeconomica


Quegli episodi non valorizzati
. Secondo Montante, inoltre, vi sono alcuni episodi occorsi al suo assistito “non adeguatamente valorizzati”. In particolare quelli riguardanti il periodo di detenzione dove è stato sottoposto a “reiterate e variegate pressioni”. Alcuni esempi possono essere gli incontri in carcere con il detenuto Vincenzo Pipino, mandato appositamente da Arnaldo La Barbera per convincerlo ad autoaccusarsi. Scrive Montante che “al di là delle perplessità sulla correttezza della condotta dell’investigatore La Barbera nell’avvalersi del delinquente Vincenzo Pipino (anziché di un poliziotto) come 'Agente Provocatore' (perplessità dalle quali emerge con adamantina chiarezza come il depistaggio - già iniziato con le dichiarazioni di Candura e di Valenti - sia stato proseguito con lucido disegno sulla persona dello Scarantino), da tali dichiarazioni - che riscontrano quelle rese dallo stesso appellante nel corso del suo esame - emerge con assoluta certezza che fin da subito il suggestionabile temperamento dello Scarantino veniva sottoposto a pressioni da parte degli Organi Inquirenti, finalizzate ad indurlo a collaborare, e che lo Scarantino avesse piena consapevolezza di tale circostanza. Tale consapevolezza, unita a quella di essere stato tratto in arresto per crimini mai commessi, avrebbero potuto far cadere chiunque in preda al panico, a maggior ragione soggetti dalla debole personalità, come per l’appunto è l’odierno appellante”. Anche la detenzione con Francesco Andriotta viene indicata come un momento chiave.
“Il ruolo di Andriotta - si legge nel documento di appello - avrebbe dovuto essere quello di riferire della presunta partecipazione di Scarantino all’esecuzione della strage di via d’Amelio, e ciò al fine di arrecare un ulteriore giro di vite alla posizione dello Scarantino, fomentando ancor più in quest’ultimo la sensazione di essere stato 'incastrato' dagli Inquirenti; nonché al fine di riscontrare quelle che avrebbero dovuto essere le dichiarazioni rese dal futuro collaboratore”. 
Ugualmente si evidenzia anche che in quel periodo Scarantino venne accusato e poi condannato per un traffico di sostanze stupefacenti. Una condanna che in qualche maniera fu annunciata già in precedenza allo stesso Scarantino. Secondo l'avvocato “è probabile, infatti, che si trattava dell’ennesimo tentativo di indurre Scarantino ad accettare di collaborare in cambio di un trattamento sanzionatorio più mite; ma è altrettanto verosimile che, nella perversa mente del Depistatore, una condanna a nove anni di reclusione per traffico di sostanze stupefacenti servisse a 'nobilitare' il curriculum delinquenziale dello Scarantino, rendendo le sue future dichiarazioni accusatorie più credibili”.

Le torture di Pianosa
Altro punto cardine sono le torture subite da Scarantino al carcere di Pianosa, dove si trovava detenuto al 41 bis. “E' stato dimostrato che in quel carcere, l’odierno appellante fu sottoposto a rilevantissime pressioni fisiche e psicologiche (vogliamo chiamarle violenze?) che vinsero la sua residua ritrosia a collaborare: in altri termini, se per convincerlo a collaborare non era bastata la minaccia di pesanti condanne o le 'false' dichiarazioni accusatorie di Andriotta, a Pianosa gli Inquirenti decidono di praticare un ulteriore giro di vite, passando alle minacce più esplicite ed alle violenze”. E a dimostrazione di queste violenze non ci sono solo le parole dello stesso falso pentito. Riscontri sui maltrattamenti provengono anche da Gaspare Spatuzza, che racconta quel che gli riferì Nicolò Di Trapani sulle torture e le sevizie subite dallo Scarantino. Ed è sempre Di Trapani a parlare dei maltrattamenti in carcere a Pianosa e l'Asinara con Giovanni Brusca, che ne ha poi riferito durante la sua collaborazione con la giustizia. Secondo Montante anche le dichiarazioni in aula dei boss Pietro Aglieri e Carlo Greco offrirebbero una conferma delle violenze subite dal suo assistito. Tutte queste dichiarazioni “benché de relato, non possono che confermare quanto denunciato dall’odierno appellante nel corso del presente procedimento: durante il periodo di detenzione a Pianosa in regime di 41 bis, le vessazioni subite da Scarantino furono tante e tali da aver definitivamente annullato ogni sua residua capacità di resistenza, costringendolo a dare inizio alla falsa collaborazione secondo il canovaccio orchestrato dai suoi stessi aguzzini”.

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2 luglio 1997. L'arresto di Gaspare Spatuzza


Le conclusioni
Nel suo atto di appello l'avvocato afferma con chiarezza che “il quadro che viene delineato da tali risultanze istruttorie rappresenta una delle più vergognose ed infamanti pagine della storia giudiziaria italiana” e così “Scarantino è costretto ad iniziare la 'falsa' collaborazione a seguito ed in ragione delle molteplici e sempre più incalzanti vessazioni psichiche e fisiche subite da parte degli Inquirenti mentre lo stesso si trovava in uno stato di (illegittima) detenzione carceraria”. E viene poi evidenziato come “le 'pressioni' degli inquirenti continuano anche successivamente all’inizio della collaborazione”. Si legge ancora che “non vi è, infatti, alcuna ragione per giustificare i numerosi colloqui investigativi richiesti in questo periodo da Arnaldo La Barbera e dai suoi collaboratori con lo Scarantino, se non quella di incalzarlo e dissuaderlo dall’intento di ritrattare, dallo stesso più volte manifestato nel corso della sua tormentata collaborazione”. Ed ovviamente non possono essere messi in secondo piano gli episodi di San Bartolomeo a Mare, in Liguria dove “alquanto anomala ed ingiustificata appariva, invece, la presenza di almeno tre membri del gruppo Falcone - Borsellino, che venivano da Palermo su disposizione del Dott. Arnaldo La Barbera osservando una turnazione bisettimanale”. 
Secondo Montante “l’istruttoria espletata nel corso del primo grado di giudizio dimostrava che lo scopo di tale assiduità era quello di 'indottrinare' lo Scarantino mediante la difficile e laboriosa attività di studio dei verbali delle dichiarazioni in precedenza rese dallo stesso, ovvero da Candura ed Andriotta, onde consentire al collaboratore l’aggiunta di nuovi particolari o di qualche aggiustamento alle incongruenze che di volta in volta potevano emergere nel racconto della dinamica dei fatti”.
Risale a questo periodo anche la prima ritrattazione “ufficiosa” del “picciotto della Guadagna”, avvenuta il 25 luglio 1995 mediante un’intervista telefonica rilasciata al giornalista Angelo Mangano di Mediaset. Ed è del giorno dopo un episodio drammatico dove, a detta dello stesso Scarantino ma anche della moglie Rosalia Basile, uno dei poliziotti presenti, il dottor Mario Bo, colpirono lo Scarantino al volto fino ad utilizzare una pistola.
In conclusione secondo il legale “il fatto non sussiste in ragione della mancata consapevolezza, in capo allo Scarantino, dell’innocenza dei soggetti dallo stesso ingiustamente accusati”. E a conferma di ciò Montante ricorda “i molteplici elementi di verità contenuti nelle dichiarazioni accusatorie di Scarantino” per cui “l’appellante non accusa solamente soggetti poi risultati estranei alla strage di Via D’Amelio, ma anche altri soggetti che a quella strage presero effettivamente parte” ma anche la consapevolezza “del ruolo centrale svolto dai suoi aguzzini nelle indagini sulle stragi” per cui si è portati “a ritenere che l’odierno appellante avesse fatto comprensibile 'affidamento' sulla veridicità delle risultanze investigative che gli venivano di volta in volta 'imbeccati' dal Dott. Arnaldo La Barbera e dai suoi collaboratori”. Tenuto conto di tutte queste circostanze, dunque, la difesa Scarantino impugna la sentenza e chiede che lo stesso sia assolto “perché il fatto non sussiste o perché non costituisce reato ex art. 530 I comma c.p.p.”. Quel che è certo dopo la sentenza dell'aprile 2017 è che sulla strage di via d'Amelio ci sono ancora enormi zone d'ombra. Il giorno della lettura del dispositivo lo stesso Montante aveva definito la sentenza come “la vittoria delle persone oneste che sono riuscite a fare la differenza” in quanto in quel momento si era resa giustizia e si era squarciato il muro di omertà istituzionale che si era venuto a creare nel corso del dibattimento. Un primo passo. Tanti altri se ne devono fare per giungere alla completa verità. E questa passa anche dalla restituzione della dignità a chi, finora, non è stato altro che vittima sacrificale. 


Foto originale strage via d'Amelio © Maniaci/Ansa

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