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corte-costituzionaledi Lorenzo Baldo - 5 dicembre 2012
L’esito scontato della Consulta che ha bocciato il ricorso della Procura di Palermo seguendo le indicazioni legate all’art. 271 del codice di procedura penale sulle intercettazioni vietate dà lo spunto per un’ampia riflessione. Con un colpo di spugna è stata respinta la tesi dall’avvocato Alessandro Pace che ha tentato invano di dimostrare come il ricorso del Quirinale potesse avere effetti assurdi.

Prima di tutto, ha sottolineato Pace, “un fatto fortuito“, come incappare nel presidente della Repubblica intercettando una terza persona, “non può essere oggetto di divieto. E’ mai possibile vietare di scivolare accidentalmente su una strada ghiacciata?”. Nella parte conclusiva del suo intervento Pace si è domandato che cosa dovrebbero fare i magistrati se intercettassero una conversazione del presidente della Repubblica che complotta per un golpe. Eliminare i files? Quindi se questo “surplus di garanzie” dovesse valere anche per ministri e premier, i pm non potrebbero più intercettare nessun sospettato che avesse contatti con loro? Secondo il legale della procura palermitana un iter “lineare” sarebbe stato, se mai, quello di inoltrare “la richiesta dell’apposizione del segreto di stato da parte del Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio” sul contenuto delle telefonate intercettate. Ma in questo caso sarebbe stato come ammettere la gravità del contenuto di quelle scomode conversazioni tra Giorgio Napolitano e Nicola Mancino. E di fatto il Quirinale si è ben guardato dal farlo. All’indomani della decisione della Consulta, puntuali come sempre, si sono materializzati i commenti dei tanti “difensori di ufficio” del Presidente della Repubblica. A partire dal fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, secondo il quale la critica nei confronti di Napolitano da parte di una certa stampa e di una certa fazione politica sarebbe a tutti gli effetti “una consapevole quanto irresponsabile posizione faziosa ed eversiva che mira a disgregare lo Stato e le sue istituzioni”, una sorta di “fascismo di sinistra”. Sulla stessa onda l’ex magistrato Luciano Violante per il quale in tutta questa vicenda viene fuori “un eccesso di personalizzazione delle indagini” da parte di quei magistrati che evidentemente hanno perso “lucidità” e non hanno visto “i limiti costituzionali nell’azione della pubblica accusa”. A stretto giro di posta l’Anm si è affrettata a dichiarare quanto sia “del tutto fuori luogo” e financo “impossibile” attribuire alla decisione della Consulta un significato politico. Dello stesso avviso il Csm che ha difeso a spada tratta la Corte Costituzionale invocando il “regolamento dei confini tra poteri dello Stato”. In mezzo a questo delirio di comunicati stampa si sta tentando di nascondere la causa scatenante di questa ingerenza del Quirinale nei confronti della Procura di Palermo. Il bieco obiettivo resta quello di far dimenticare che in alcune telefonate il privato cittadino Nicola Mancino – ex ministro ed ex vice presidente del Csm – chiedeva aiuto al Colle per evitare il confronto con Claudio Martelli in merito alle indagini sulla trattativa Stato-mafia, fino a tentare di far togliere la suddetta inchiesta alla Procura di Palermo. Una questione gravissima e soprattutto di rilevanza politico-istituzionale. Che in un altro Paese avrebbe imposto al presidente della Repubblica l’obbligo di trasmettere ai cittadini il contenuto delle sue conversazioni con il signor Mancino. Lo scorso 17 agosto il noto giurista, Gustavo Zagrebelsky, ex giudice della Corte Costituzionale, aveva predetto immancabilmente la sentenza della Consulta basandosi su dati oggettivi. “Qui, si tratta della posizione nel sistema costituzionale del Presidente – scriveva Zagrebelsky su Repubblica – , in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona”. Per il Presidente emerito della Corte Costituzionale si trattava di “un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull'altra, l'autorità giudiziaria, il cui peso, al confronto, è poco”. Secondo il giurista al di là degli argomenti giuridici l'esito era “scontato” in quanto “nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto”. “Una sola norma – spiegava Zagrebelsky – tratta espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento. ‘In ogni caso’, dice la norma, l'intercettazione deve essere disposta da un tale ‘Comitato parlamentare’ che interviene nel procedimento d'accusa con poteri simili a quelli d'un giudice istruttore. Nient'altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedimento d'accusa; niente sulle intercettazioni indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a parlare con chi lo è); niente sull'utilizzabilità, sull'inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti. Niente di niente”. Ed è proprio attorno a quel “niente” che paradossalmente oggi assume i contorni di un perno giuridico di acciaio che tanti pavidi, collusi e quaquaraquà si allineano per sferrare un nuovo attacco nei confronti di un pugno di magistrati ostinati a scandagliare il fondo putrido di questa Repubblica. Siamo di fronte alla dimostrazione plastica di una “ragione politica” che prevale su quella giuridica e che impone di dare ragione al presidente della Repubblica. La sentenza della Consulta rappresenta a tutti gli effetti una sconfitta del diritto e della Costituzione. L’obiettivo di fermare il pool di magistrati che investiga sulla trattativa Stato-mafia passa prepotentemente anche attraverso questa vergognosa sentenza sulla quale la società civile ha l’obbligo morale di tenere alta la guardia.


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