di Salvo Vitale
Fenomenologia della negazione
La negazione è la parte conclusiva di un discorso iniziato con l’approccio, il gradimento, la simpatia, la condivisione, il reciproco piacersi, l’ammirazione, la risata, la sbronza, l’esaltazione di un gesto, di una parola, l’inaspettata capacità di far diventare rilevante l’irrilevante, di riempire di senso l’insignificante. Sarebbe lungo cercare le motivazioni alla base della nascita, dell’affermarsi o della ulteriore crisi di un rapporto legato a un giudizio tipicamente emotivo, più difficile tentare un’universalizzazione di ciò che appartiene a una sfera strettamente individuale, legata alla soggettività delle esperienze vissute e talora anche al desiderio di andare oltre esse, di negarle, di cercare nuovi percorsi.
Sarebbe come volere spiegare l’amore che scoppia all’improvviso tra due persone che si frequentano da anni, senza provare niente. Di colpo tutto ciò che era scontato, che rientrava nello schema dell’abitudine, cambia colore e acquista più intensità di quanto non succeda nell’abituale cambio d’umore. Se, alla fine del percorso subentra un qualsiasi motivo di negazione, quando il giudizio cambia, l'amore diventa odio, l'amicizia inimicizia, il rispetto disprezzo, la fede illusione, la fiducia delusione, la dolcezza amarezza, il dialogo silenzio, l’incontro scontro. Quando si vuole criticare qualcosa, si trova sempre qualche motivo per farlo. Anche a costo di fare forzature, di stravolgere un’affermazione per farla diventare il contrario di quella che è. In tal caso non c’è più il dato, l’elemento del contendere, ma il significato, la lettura soggettiva del dato. Il problema, tuttavia, non è nella critica, che è un effetto, ma nella causa che la determina. Perché si vuole criticare qualcosa? Qual è la molla che fa scattare la critica? Il movente non è molto distante, nel rapporto interpersonale, dalle situazioni con cui si sviluppa la crisi della biunivocità, sino ad arrivare alla sua totale negazione, che comporta anche la negazione della persona di riferimento. “La ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro”, dice A. Manzoni, ma è raro che si arrivi alla considerazione che la conflittualità nasce tra due parti e ognuna di esse ha un suo livello di responsabilità nel sapere riconoscere questo livello.
Quando finisce
Esempio classico è quello di due persone che hanno fatto coppia e, a un certo momento si lasciano. È più o meno come vedere attraverso un occhiale colorato, o anche di vista. Cambiata la chiave di lettura, ogni cosa assume dimensioni diverse e impensabili sino a poco tempo prima: tutto quello che sembrava bello, che faceva ridere, che destava ammirazione, diventa sciatto, banale, insipido, distante, sgradevole, antipatico. Ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, diventa un tassello che alimenta la distanza, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, sino ad arrivare alla soppressione logica e psicologica dell’interlocutore, il quale, nella sua condizione di vittima sacrificale ha come possibilità il silenzio, il taglio del rapporto dialogico, la costruzione di una parete divisoria, in pratica un atteggiamento difensivo, se non si vuole inasprire la distanza, oppure, in rapporto al proprio livello di aggressività, la risposta fredda, colpo su colpo, il ping pong, il mettersi alla pari senza rinunciare all’analisi spietata e alla denuncia dei passaggi sotterranei che determinano le critiche e le manipolazioni degli argomenti. Bisogno di colpire, di ferire, di scaricare la propria amarezza, di lenire la propria ferita con il balsamo della vendetta, con la compensazione del dolore ricevuto, e quindi ricambiato, senza curarsi dei danni che si possono provocare. E poiché nessuno ammette che si tratta di errori di valutazioni o di chiavi di lettura emotivamente falsate, siamo già sull’orlo della rottura, con il suo micidiale carico di risentimenti, squassi interni, incarognimenti, contrapposizioni, mugugni, preparazione mentale della frase, della risposta da tirar fuori al momento giusto, con attenta scelta delle parole, ognuna con la sua spietata forza di un’arma da taglio. Una vera e propria condizione patologica. Un cancro che rode, che alimenta metastasi, che distrugge la positività, la presenza del sorriso, della gioia, dell’intimità, della comprensione. Spesso un incontro, un bacio, un abbraccio, possono dare l’illusione che tutto sia stato superato, che si apra lo spiraglio, che tutto si sia rafforzato, ma, se c’è il malessere, questo non tarderà a ripresentarsi. Se non si è in grado di invertire questa fase, e, per farlo, ci vuole amore e intelligenza, se si vuole evitare l’incancrenirsi di una situazione che genera devastazioni interiori, l’unica e definitiva soluzione è il bisturi, cosa che è sempre drammatica specie quando in mezzo ci sono situazioni familiari e vittime innocenti. In pratica si tratta di un gesto che ha tutte le caratteristiche della soppressione, di un omicidio psicologico simulato e consumato con tutte le raffinatezze e le strategie di cui l’inventiva umana è capace, acuite e inasprite anche al massimo livello dall’esacerbazione, ove non ci sia il ricorso alla violenza fisica e all’omicidio vero.
Il giudizio che cambia e il pregiudizio
Il giudizio non cambia solo per le persone, ma anche per le cose, per le ideologie, per la valutazione di opere d’arte e di letteratura, di sapori, di scelta del vestiario ecc.. L’età evolutiva già comporta percorsi di mutamenti ben precisi e studiati, nel momento in cui la famiglia non è più il centro d’interesse intorno a cui ruota tutto, ma si aprono altre finestre, altri bisogni, altri richiami e non solo sessuali. Il rapporto familiare si incrina, i genitori sono visti come eredi d’altri tempi come limitatori della propria libertà di giudizio o delle proprie scelte, o, come si credeva nel ’68, come strumenti di un autoritarismo che parte dallo stato. Tipico anche, nei giovani che diventano adulti, il superamento della condizione di ribellismo giovanile, che li ha portati ad occupare le scuole, a partecipare ai cortei, a frequentare gente con idee politiche “estremiste”: di colpo sembra tutto diventare come qualcosa che non appartiene, che ha occasionalmente attraversato la strada ed è andata via, i “peccati di gioventù”, dopo che ci si mette la testa a posto. C’è una grande abbondanza di giovani contestatori, in gran parte vicini all’estremismo di sinistra, diventati conservatori, benpensanti, fautori dell’ordine, razzisti, egoisti. Anche nella mutata valutazione di ideologie, prima fra tutti il “comunismo”, ma anche il “cristianesimo”, non ci si fa scrupolo di accumulare tutto in un unico fascio dove mettere delitti, fanatismi, intolleranze, applicazioni e interpretazioni errate, cose ben lontane dalla concreta “purezza”, dal fascino dell’idea originaria, cosicché la dottrina dell’amore diventa dottrina dell’odio, il principio dell’eguaglianza diventa ingiustizia, perché non rispetta le competenze e le differenze, il panteismo diventa materialismo, la Shoah non è mai esistita o è stata gonfiata dalla propaganda antinazista, Peppino Impastato era era “lordu,” e non aveva rispetto neanche per la sua famiglia che gli dava il pane, Peppe Fava un femminaro, Mauro Rostagno un drogato, Garibaldi uno che conquistò il Regno delle due Sicilie corrompendo i generali borbonici con i soldi dei Savoia e degli Inglesi, Leopardi era un poveraccio che “faceva puzza”, che non ebbe mai alcun rapporto con le donne e quindi la sua poesia è solo espressione della sua insoddisfazione, Nietzsche è impazzito perché si ostinava a combattere il Cristianesimo e voleva sapere cose che all’uomo sono precluse, ecc.
Attenzione, possono esserci, nell’enunciazione di questi giudizi, elementi di partenza, circostanze che possono essere vere e possono giustificare la formazione del pregiudizio che rende il particolare come la chiave di lettura dell’universale: se tu fumi una sigaretta ogni tanto, o se qualche volta ti sei fatto una canna, sei un fumatore e un drogato; se hai avuto un incidente in macchina sei uno che non sa guidare, se ogni tanto ti concedi un bicchiere di vino sei un ubriacone, ecc. La pregiudiziale “nullità” della persona negata è il presupposto che ne rende inutile, inconsistente, qualsiasi gesto apprezzabile, qualsiasi scelta coraggiosa, qualsiasi iniziativa, qualsiasi cosa scritta, anche se ha ricevuto il plauso degli altri. E così la conclusione, da parte di chi nega, è che gli altri non capiscono o non hanno capito, o si lasciano raggirare dalla perversa capacità di persuasione del soggetto negato, dai mass media asserviti al potere, dalle regole ipocrite della cultura dominante, o, nel caso opposto, dalla capacità di fascinazione della cultura sovversiva. Anche il giudizio, il parere di persone eminenti, di studiosi, di esperti, diventa irrilevante nei confronti del pregiudizio. Si trova sempre qualche motivazione: non conoscono bene i fatti, sono estranei all’ambiente ecc.
I “sapientoni” che invece sputano sentenze all’interno del loro codice ideologico, dei loro fanatismi, della loro intolleranza verso qualsiasi forma di diversità, pretendono di essere i soli depositari della verità, i soli e veri giudici dei fatti e delle persone.
La transitività
Nella logica di chi “forza” i margini del giudizio c’è anche il ricorso alla diffamazione, alla “macchina del fango”, all’invenzione o alla distorsione malevola di episodi, momenti, frasi, occasioni che divengono prove della dimostrazione della tesi di partenza. Una delle tecniche più usate è la proprietà transitiva, con il suo carico di deformazioni: gli amici dei miei nemici sono miei nemici, e quindi, se x è un cattivo soggetto, tu che sei amico di x sei anche un cattivo soggetto, se hai un figlio che si droga, la colpa è tua che non lo sorvegli o non hai saputo educarlo, se hai subito un attentato la colpa è anche tua, che ne hai dato l’occasione o la motivazione, se Crocetta, del PD, è stato al governo siciliano assieme all’UDC di Cuffaro e se in questo partito ci sono molti pregiudicati e mafiosi, anche Crocetta è un mafioso o amico dei mafiosi, ma lo è anche il suo partito, il PD e così via. Dalla continuità alla transitività, dal particolare all'universale, si collegano fatti, si trovano relazioni, coincidenze, deduzioni, si elaborano teoremi incredibili, ma accettati con molta disinvoltura.
La macchina del fango
Molte di queste tecniche sono tipiche della subcultura mafiosa e sono funzionali alla conquista o al mantenimento di una condizione di privilegio e di controllo del territorio, costruita attraverso l’uso di qualsiasi forma di violenza, fisica o psicologica, attraverso il ricorso alla circolazione di false e diffamanti notizie studiate per creare l’isolamento attorno al soggetto sgradito, pronunciarne a priori la condanna e bandirlo o metterlo ai margini del contesto sociale in cui vive. La condanna, in molti casi, coinvolge anche amici e parenti, per il solito uso scorretto della proprietà della transitività. Lo strumento più facile per evitare la diffusione di possibili “virus” è l’etichettatura, l’affibbiare a una persona o a un gruppo un preciso delimitato spazio d’azione in cui muoversi, il giudicare secondo una inappellabile definizione: “Sono quelli di…, quelli che…”. Se in mezzo c’è uno con una sua precisa identità, questa identità viene estesa a tutto il gruppo. La difficile sopravvivenza delle minoranze, siano esse politiche che professionali o religiose, (“quelli di Rifondazione Comunista…”, “i testimoni di Geova….”, i “musulmani", “persino i “Lions”, “i massoni”, “i fascisti”, “quelli dei centri sociali“, le provenienze di opposta estrazione), è stritolata dall’indicazione dell’omogeneità, dell’assimilazione al tutto, dall’identificazione nell’ideologia di massa, nel personaggio di moda, nel leader che esibisce i suoi deliri di onnipotenza ad alta voce, che affascina e del quale, spesso senza motivazioni o interessi specifici, certi soggetti diventano alfieri, esponenti, portavoci, difensori d’ufficio, soldati disposti a combattere, fanatici fans, elettori, pecore al seguito. Ed è inutile gridare che è necessario essere se stessi, riappropriarsi della propria identità, perché l’identità è ormai quella acquisita dal contesto sociale che te l’ha trasmessa e ne consegue che tutte le altre sono sbagliate.
L’amicizia
Al di là del rapporto d’amore, con tutti i suoi coinvolgimenti emotivi, rimane quello dialogico secondo l’indicazione di Epicuro: “Di tutte le cose che la saggezza fornisce per rendere la vita interamente felice, quella più grande in assoluto è il possesso dell'amicizia”. Durante la rivoluzione francese la chiamavano “fraternité”. Tutto questo vale anche se variano le scelte ideologiche: in tal caso, oltre che a rinnegare le idee in cui si è creduto, si rinnega anche se stessi e gli “errori” passati e ci si circonda di una patina di autocompiacimento nel ritenere incontestabile e irreversibile il giudizio che cambia. In verità questo non vuol dire ritenersi capaci di “avere preso coscienza”, di avere avuto la forza e la capacità di rimettere in discussione un passato fatto di uomini e idee in cui non ci si riconosce più.Dietro queste metamorfosi c’è molto opportunismo, oppure, se si tratta di conversioni religiose, c’è una soggettiva lettura di un fatto apparentemente inspiegabile, con spiegazioni metafisiche. Per non parlare delle forzature logiche, dei falsi teoremi che vengono adottati e che stanno dietro la necessità, se non la pretesa, di giustificare la scelta. Quando prima o poi si realizza il "taglio" non dovrebbe essere necessario trasformarlo in "omicidio", passare attraverso la soppressione dell'amico diventato nemico: basta sforzarsi di superare i mal di pancia, la delusione, l'amarezza e riconoscere che non ci sono più le condizioni per procedere "insieme" sulla stessa strada. Il che non vuol dire che la strada appartiene a una delle parti in causa. La strada è di tutti.
Quando avremo imparato a parlarci come compagni di uno stesso itinerario, che la vita degli uomini sul pianeta terra, il cui traguardo dovrebbe essere il raggiungimento di una comune serenità e la disponibilità al confronto e alla costruzione di infiniti saperi, di infinite ideologie, di molteplici tolleranze e di comuni convivenze reciprocamente costruttive, avremo realizzato i vari e affascinanti modi di essere di una odiata, vituperata, temuta, osannata, offesa, oppressa e soppressa parola, il comunismo, ovvero il luogo dove ci si riconosce come “compagni” della stessa comunità, con cui ci si divide il pane (cum panis), si è commensali. Si noti il ricorrere del prefisso “com”.
2.2.2019
Rielaborazione e aggiornamento di un articolo pubblicato su ANTIMAFIADuemila il 27 dicembre 2013
Foto © Imagoeconomica
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