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Giuliano Scarpinato debutta con il suo spettacolo al Teatro Biondo di Palermo

“Travolgente”. È l’aggettivo che più di ogni altro riesce a racchiudere tutte le sensazioni che si provano dopo aver visto lo spettacolo “Il tempo attorno”, debuttato ieri al Teatro Biondo di Palermo. Si viene travolti, appunto, dalle vicende di una famiglia che, nonostante siano raccontate attraverso gli occhi di un bambino, ricostruiscono un pezzo di storia recente del Paese. Benedetto è un giovane ragazzino costretto a crescere troppo in fretta, a “ragionare fin da subito”. Figlio di una coppia di magistrati antimafia, Michele Vetrano e Paola Randazzo, il giovane è cresciuto a pane e processi. Anzi, a mafia e “Philadelphia”, con i cartoni degli anni ’80 e ’90 nel tubo catodico a fargli compagnia e quelle amicizie ostacolate da una vita blindata. Due agenti di scorta, De Piccolo e Mansueto, che affiancano costantemente i tre, accompagnandoli nella loro quotidianità tra felicità, lavoro e paura. Paura di morire dopo le minacce di morte di Cosa nostra dirette ai genitori. Paura di fallire un’impresa ardua: processare lo Stato corrotto e colluso con la mafia.


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Gli accadimenti si succedono a un ritmo innaturale, come se qualcuno avesse impresso una velocità doppia alla moviola dei giorni: le stragi di Capaci e Via d’Amelio, l’omicidio del piccolo Di Matteo, il “processo del secolo” a carico dell’uomo più potente d’Italia, Giulio Andreotti. Tutto questo entra prepotentemente nella casa di Benedetto, che vede volar via l’amore dei suoi genitori, l’innocenza dell’infanzia e ogni certezza, a partire da quella della vita stessa. Il tutto sviluppato nel cono d’ombra che dagli anni '80 della seconda guerra di mafia si allarga fino ai primi anni duemila. Ed è in questo arco temporale che Benedetto, in dialogo costante con il pubblico, sfondando la “quarta parete”, tesse la trama della piccola famiglia. Specchio della vita vissuta dai magistrati antimafia Roberto Scarpinato, Teresa Principato e dal loro figlio, Giuliano, che ha ideato questo spettacolo per raccontarsi, con la supervisione di Lucia Calamaro (produzione Teatro Biondo). Spesso si dice che siano i figli a scegliere i genitori, ma Benedetto non ci crede e non nasconde il peso che gravava sulle sue spalle.


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Un ragazzino esile con un destino in parte già scritto senza aver avuto margine di scelta. Due genitori impegnati in prima linea contro la mafia, non c’è scelta. Storia, ma anche traumi. Un’infanzia difficile in cui a volte il bambino veniva considerato come “una cosa di casa da vestire”. Specie nei momenti drammatici successivi alle stragi di mafia, come quella che uccise Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta. E il piccolo Benedetto preso di peso e portato in macchina dalla mamma mentre con la scorta correva contro il tempo nella speranza che i suoi amici, oltre che colleghi, fossero ancora vivi. Forse, per un ultimo saluto. Era il 1992. “Una data impossibile da saltare altrimenti resta un buco”, si autoconvince Benedetto. Aveva 9 anni e ricorda due parole di quegli attimi: “attentato” e “tritolo”. “Due parole che paiono perfette a stare assieme”, dice amareggiato. Erano gli anni della “Palermo come Beirut”. Una guerra che prima di tutti ha colpito nell’intimità le famiglie di coloro che erano schierati in prima linea. Anche degli agenti di scorta. Spesso ricordati con una sorta di epifrasi: “Falcone, Borsellino… e gli agenti di scorta”. Come se non avessero nomi e cognomi, famiglie, storie. Vite vissute anche al di fuori delle forze dell’ordine e di quel tanto famoso “Reparto Scorte” dal quale si sapeva quando si usciva ma non quando si rientrava. Se si rientrava.


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Insomma, “Il tempo attorno” racconta una storia avvincente e travolgente allo stesso tempo. Il tutto usando parole giuste, moderate, ponderate perché fra ingenuità e fragilità il confine è sottile. Soprattutto, quando si tratta di personaggi pubblici del calibro di Roberto Scarpinato e Teresa Principato, entrambi volti storici della magistratura inquirente che ha osato indagare le trame oscure del potere. Ed è qui che risiede la maestria del regista. Nella capacità di cavalcare la storia riavvolgendola come un nastro, mostrando al pubblico che dietro la cronaca, dietro gli articoli di giornale o ai processi ci sono persone. Famiglie che hanno pagato a caro prezzo il peso della democrazia e del senso del dovere. E continuano a farlo. Quella di Benedetto, come quella di Giuliano, è una vita trascorsa con genitori sempre in giacca e cravatta. Anzi, con la toga. E la responsabilità che da questa ne scaturiva. Una vita blindata, in costante pericolo. Con il Codice penale in mano e le carte dei processi fin dentro il frigorifero. E l’aspettativa di una larga fetta di società che riponeva in loro la speranza di cambiare la storia. Un compito ancora in corso d’opera, per cui si può solo dire: ai posteri l’ardua sentenza.

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