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In occasione del 41° anniversario della morte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso dalla mafia a Palermo insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente Domenico Russo il 3 settembre 1982, riproponiamo questo indimenticabile reportage di Saverio Lodato, contenuto nel suo libro “Quarant'anni di mafia” (BUR Rizzoli). Il giornalista e scrittore racconta i momenti concitati del ritrovamento dei cadaveri della coppia in via Carini, le espressioni dei colleghi, degli ufficiali e dei curiosi. Lodato ricorda poi i volti di pietra della classe politica del tempo, giunta ipocritamente a dare l’ultimo saluto al generale nella chiesa di San Domenico dopo averne ignorato le richieste di aiuto quando ancora era in vita.

Quindi riporta uno dei passaggi più toccanti dell’omelia del cardinale Pappalardo nella quale questi condannò Cosa Nostra e le negligenze del governo di allora in tema di lotta alla mafia. Il passaggio del libro di Saverio Lodato dedicato a dalla Chiesa è stato letto ieri a Milano, in piazza Diaz, dove si è tenuta l'iniziativa curata da Libera, "Qui non è morta la speranza dei palermitani onesti", in ricordo della strage di via Carini.



 



Quella sera in via Carini

di Saverio Lodato

Il commando fu rapidissimo nell’eseguire la strage. L’A 112, guidata da Emanuela Setti Carraro con a fianco dalla Chiesa, era seguita a breve distanza da un’Alfetta di servizio guidata dall’agente Domenico Russo. Le due auto provenivano dalla prefettura. La trappola mortale scattò in via Carini. Una 131 e una BMW strinsero la A 112 contro un marciapiede, a meno d’un chilometro da Villa Whitaker. Le sventagliate di kalashnikov colpirono contemporaneamente Emanuela, il prefetto e l’autista dell’auto di scorta. Una decina di killer presero parte all’operazione. Il massacro fu scrupoloso. Emanuela e dalla Chiesa morirono sul colpo. L’agente Russo in ospedale, qualche giorno dopo. L’indomani un cittadino scrisse sul luogo dell’agguato: “Qui è morta la speranza dei siciliani onesti”.

Due giorni prima il ministro delle Finanze Rino Formica aveva dichiarato pubblicamente che presto dalla Chiesa sarebbe entrato in possesso dell’enorme schedatura dei patrimoni illeciti preparata dalle Fiamme Gialle.

«Nota personalità... nota personalità... nota personalità...» Gracchiarono a lungo le autoradio, quella sera del 3 settembre, in via Carini. Non si pronunciava il nome di dalla Chiesa in quei dispacci. Non si facevano i nomi di Emanuela Setti Carraro e dell'agente Domenico Russo, che stava agonizzando sventrato dai colpi di kalashnikov. Apparve infatti subito chiaro che la bestia mafiosa aveva superato il segno, e che sarebbero venuti ancora giorni ben più neri, ben più difficili.

Era un venerdì. Mi trovavo nella redazione de «L'Ora» in compagnia di un collega che si occupava di politica regionale. Stavamo facendo le ultime telefonate di controllo prima di andarcene a casa. A un tratto il mio collega assunse un colorito spettrale, e riuscì solo a farfugliare: «Dicono che hanno ammazzato dalla Chiesa». In portineria, anch'egli stravolto, incontrammo un poliziotto che sentiva ripetere dalla sua ricetrasmittente: «Hanno ammazzato nota personalità... hanno ammazzato nota personalità...».


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Ricordo una autobotte dei pompieri messa di traverso in via Carini per impedire l'afflusso di automobilisti curiosi. Ricordo un impressionante dispiegamento di forze. Mai viste tante pistole che spuntavano dalle cinture dei pantaloni. Ricordo il grottesco carosello di decine e decine di volanti, per l'intera nottata, in ogni via di Palermo, quando ormai il peggio era accaduto. E sirene, sirene, sirene: sembrava che tutti gli uomini di tante polizie sbalorditi di fronte all’ennesima dimostrazione di potenza del nemico, cercassero di darsi conforto alzando il volume, quasi a non voler sentire l’eco ancora assordante di quei colpi che avevano messo in ginocchio lo stato italiano. Ricordo il cardinale Pappalardo - il capo della Chiesa siciliana - giungere sul luogo del delitto, a piedi, da solo, stralunato. Lo ricordo fendere la folla consapevole d'un carisma che qualche giorno dopo, durante i funerali nella chiesa di san Domenico, gli avrebbe dato la forza, mentre tutti erano deboli e smarriti, di pronunciare la potente omelia su Sagunto che veniva espugnata mentre a Roma si discuteva. Ricordo le crocerossine in camice bianco giunte lì per l'estremo addio a Emanuela. Ricordo la raffica di ordini secchi di tanti funzionari che purtroppo non significavano nulla. Ricordo il buio pesto di quella sera, i fari delle auto che mi fecero pensare alla luce irreale dei comuni terremotati del Belice quella notte del sisma, in un lontano gennaio del 1968 che sembrava sepolto nella mia memoria. E ricordo ancora strani vecchietti, poveri pensionati cascati giù dal letto, vestiti alla meno peggio, alcuni in pantofole, altri con la giacca sopra la blusa del pigiama, con baschi e cappelli di lana.

Ricordo nugoli di bambini, silenziosi, impauriti dalla serietà d'uno spettacolo che non capivano. Rivedo affacciate a quei balconi, al primo, al secondo piano, le popolane del vicinissimo mercato del Borgo, mute come vedette che forse avevano visto tutto, che certamente avevano sentito tutto. Che magari non avrebbero mai parlato, ma che certamente, anche se restavano impassibili, avevano già espresso dentro di loro una condanna senz'appello per gli autori della strage. Sì. Ricordo ancora qualche cosa. Ricordo che nessuno, quella notte, volle confermare ufficialmente che il nuovo agnello sacrificale si chiamava dalla Chiesa. Scene di isteria, umane, ma lo stesso fastidiose. Le maschere di cera di tanti funzionari della prefettura che non avevano amato dalla Chiesa vivo e avevano paura adesso che era morto. Ricordo i colleghi, quella notte, disarmati, improvvisamente privi di certezze, senza taccuini, senza penne, che non prendevano appunti perché scolpivano nella memoria ogni particolare di quell'impetuoso fiume di «notizie» che scorreva di fronte ai nostri occhi. Giunsi finalmente a tiro della A 112 bianca la cui foto sarebbe stata pubblicata l'indomani da tutti i giornali del mondo.


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Non ho nulla da aggiungere. Lo strazio, la pena, la ripulsa di quella notte in via Carini, sono diventati, per fortuna, patrimonio comune di tanti. E dire che appena qualche settimana prima, all’indomani dell’intervista a «L’Unità», qualcuno, incontrandomi in quel Palazzo, mi aveva detto: «Ma questo dalla Chiesa chi cazzo crede di essere? Nembo Kid?». Nembo Kid aveva chiuso. Ricordo anche il 5 settembre, giorno dei funerali, giorno dell’ultimo saluto a Carlo Alberto dalla Chiesa e a Emanuela Setti Carraro.

Ricordo che le facce di pietra degli uomini di Stato erano schierate lì in prima fila, nella chiesa di San Domenico, mentre migliaia di persone premevano per entrare e dar sfogo alla loro rabbia incontenibile. Sotto la navata centrale del Pantheon le due bare in mogano. Monetine da cento lire vennero scagliate in quel primo pomeriggio - erano appena scoccate le sedici - contro Alfette blu di ministri e sottosegretari.

La contestazione coinvolse tutti gli uomini politici presenti.

Particolarmente bersagliati, per la carica di ministro degli Interni e di presidente del Consiglio, Rognoni e Spadolini. C'erano anche La Malfa e Craxi, Colombo e Formica, Berlinguer e Lama, Emma Bonino e Almirante. Nando, Rita e Simona dalla Chiesa. E quella mattina, seppur distrutti dal dolore, avevano trovato la forza di rifiutare la corona di fiori inviata dalla Regione siciliana. Abbracciarono soltanto il presidente Sandro Pertini che quel giorno pianse come un bambino.

Nella chiesa di San Domenico, nel cuore della vecchia Palermo, echeggiarono spesso fischi, insulti e slogan inneggianti alla pena di morte. Anche il cardinale Pappalardo ignorò i rappresentanti delle istituzioni, e si accorse solo della presenza di Pertini. Pronunciò quel giorno un'omelia che avrebbe fatto storia: «Sovviene una nota frase, della letteratura latina. Sallustio mi pare: Dum Romae consulitur... Saguntum expugnatur, mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata. E questa volta non è Sagunto, ma Palermo! Povera Palermo nostra».

Le telecamere della televisione di Stato ripresero in diretta tutta la cerimonia funebre. C'era un'Italia con gli occhi rossi. E una classe politica con uno sguardo di pietra. La stessa che non aveva ben capito quali poteri andasse cercando questo generale piemontese mai contento che lo Stato lo avesse scelto per andarsene in trincea. Ma anche quella parte di classe politica che avendo capito benissimo quali fossero i desideri del nuovo prefetto di Palermo aveva fatto di tutto per ostacolarli.

Tratto da “Quarant'anni di mafia” (ed. BUR Rizzoli)

Foto © Paolo Bassani

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La rubrica di Saverio Lodato

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