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La storia del pool antimafia e delle bombe del '92-'93 nel nuovo libro del giornalista Stefano Baudino

Il pool nacque per risolvere il problema dei giudici istruttori che lavoravano individualmente, separatamente, ognuno "per i fatti suoi", senza che uno scambio di informazioni fra quelli che si occupavano di materie contigue potesse consentire, nell'interazione, una maggiore efficacia con un'azione penale coordinata capace di fronteggiare il fenomeno mafioso nella sua globalità.

Paolo Borsellino


Il Pool antimafia di Palermo era un gruppo di magistrati impegnati contro la mafia in Sicilia e che portò all'istruzione del Maxiprocesso di Palermo, iniziò il 10 febbraio 1986.
Nato da un'idea di Rocco Chinnici, dopo la sua morte venne sviluppato e reso operativo da Antonino Caponnetto. Il nucleo originario era composto dai giudici istruttori Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello.
Sulla storia del pool e del primo maxiprocesso contro Cosa Nostra si sono spese fiumi di parole sull'indubbio lavoro svolto dallo Stato: magistratura, forze dell'ordine in primis.
Tuttavia non può tacersi il fatto che nonostante i risultati conseguiti un certo Stato (e non solo) farà, nei mesi successivi, di tutto per ostacolare il giudice Giovanni Falcone.
Basti pensare alla sua mancata nomina a consigliere istruttore del Tribunale di Palermo da parte del Csm, che gli preferì Antonino Meli; la sua bocciatura ad Alto Commissario per la lotta alla mafia; le lettere del "Corvo" e l'attentato all'Addaura.
Fatto sta che questo epocale momento storico ha visto il sorgere di indagini profonde sui complessi conti bancari utilizzati dalla criminalità organizzata, mentre contemporaneamente ha assistito all'emergere di importanti collaboratori di giustizia, rappresentati dal cosiddetto "fenomeno del pentitismo". Questo aspetto si è rivelato essere la prima e autentica chiave di lettura che ha permesso di scrutare l'universo della mafia da una prospettiva interna, svelandone le intricate reti e le dinamiche più oscure. Tutti questi aspetti cruciali sono stati meticolosamente esaminati e narrati nell'ultima opera letteraria del giornalista e scrittore Stefano Baudino, intitolata "Il Maxiprocesso di Palermo", acquistabile online o in edicola insieme al Corriere della Sera e alla Gazzetta dello Sport. Quest'opera letteraria non si limita a narrare una vicenda storica, ma si propone di mantenerne viva la memoria, offrendo una visione profonda e avvincente di quanto accaduto.
Questo testo rappresenta un inestimabile contributo alla preservazione della storia e degli insegnamenti derivati da quel periodo cruciale. Tuttavia, si discosta dalle vuote retoriche spesso associate alle commemorazioni, offrendo piuttosto una prospettiva articolata e ponderata sulle lezioni apprese da quel trascinante capitolo della lotta contro la mafia.


falcone borsellino caponnetto da wikipedia

I giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino ed Antonino Caponnetto


Ecco Cosa Nostra!
Furono i collaboratori di giustizia, i cosiddetti "pentiti" ad aprire un varco che permise agli investigatori di guardare la mafia dall'interno.
Ma chi sono?
"Si tratta di quei personaggi che, attraverso un vero e proprio 'tradimento' del codice deontologico imposto dall’associazione criminale di appartenenza, contribuirono uno ad uno a prendere a picconate il muro dell’omertà mafiosa, che fino a quel momento aveva costituito la più importante garanzia per il consenso sociale sul territorio e contro l’azione repressiva dello Stato", si legge nel libro.
Uno di loro fu Leonardo Vitale, nipote del capomandamento Giovanbattista Vitale. Nonostante la sua "posizione bassa nelle gerarchie criminali di Cosa Nostra, fece ai poliziotti i nomi di molti mafiosi che facevano parte delle famiglie di Palermo e provincia. Eppure, Vitale non venne creduto, finendo anzi internato nel manicomio di Barcellona Pozzo di Gotto. Pochi mesi dopo l’uscita, il 2 dicembre 1984, i mafiosi lo fecero fuori a Palermo, davanti alla chiesa dei Cappuccini, dove si trovava assieme a sua madre".
"Le sue rivelazioni provocarono decine di arresti, ma la maggior parte dei mafiosi coinvolti si salvarono rendendosi latitanti o venendo successivamente scagionati per mancanza di prove".
La vera svolta arriverà con Tommaso Buscetta.
Il 16 luglio 1984 iniziò a parlare con Giovanni Falcone e l'effetto fu dirompente: "Con Buscetta ci siamo accostati all’orlo del precipizio, dove nessuno si era voluto avventurare, perché ogni scusa era buona per rifiutare di vedere, per minimizzare, per spaccare il capello (e le indagini) in quattro, per negare il carattere unitario di Cosa Nostra'. Sul punto, Falcone attacca senza giri di parole i suoi detrattori istituzionali: 'Alcuni miei colleghi e anche certi poliziotti che sostengono di occuparsi di mafia non hanno letto ancora oggi i verbali di interrogatorio di Buscetta! Alcuni con tono spocchioso mi rinfacciano il 'teorema Buscetta' o meglio il 'teorema Falcone'!'.
"Grazie alle informazioni fornitegli da don Masino, Falcone si rese conto che fino a quel momento era stato 'solo un artigiano' che non poteva contare su 'strumenti adeguati', attorniato 'dallo scetticismo generale' e sostenuto 'soltanto da alcuni colleghi'. E che invece, in quella fase, fosse finalmente 'giunto il momento di fare un salto di qualità nell’organizzazione della lotta per ottenere risultati significativi'.
"Altro collaboratore di giustizia d’eccellenza fu poi il boss catanese Antonino Calderone – fratello minore del capomafia di Catania Giuseppe –, che parlò a Giovanni Falcone delle relazioni tra imprenditoria catanese e Cosa Nostra, nonché ai legami tra la sua famiglia mafiosa e quelle di Caltanissetta e Agrigento, provocando una marea di arresti".


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Aula bunker di Palermo durante il Maxi processo © Shobha


Il blitz di San Michele e la sentenza di primo grado
"Nell’autunno del 1984, i magistrati del pool antimafia di Palermo decisero che fosse arrivato il momento giusto per passare all’azione”. “E così, il 29 settembre del 1984 in quello che verrà ricordato come il blitz di San Michele, la squadra di Caponnetto riuscì a mettere le manette a 366 soggetti, oltre due terzi dei ricercati".
Nemmeno dopo tre mesi, l’8 novembre 1985, il pool depositò la sentenza - ordinanza, composta da 8607 pagine, inserite in 40 volumi e 22 allegati.
"Al termine della fase dibattimentale, il 22 aprile 1987, inizia la requisitoria dei pubblici ministeri Domenico Signorino e Giuseppe Ayala, che continuerà per numerose udienze. Le richieste ammontano a 28 ergastoli e a quasi 5000 anni di carcere".
"Al termine, il 16 dicembre 1987, i giudici fanno il loro ingresso in aula con facce provate dalla stanchezza. Due di loro, il presidente Giordano e il giudice a latere Pietro Grasso, si sono anche fatti crescere la barba. Il bilancio per Cosa Nostra è impietoso: 19 ergastoli, 2665 anni di carcere e 11 miliardi di lire di pene pecuniarie".

Lo 'scoglio' della Cassazione
Il Maxiprocesso approdò alla Corte d'Appello il 22 febbraio 1989 per concludersi il 12 dicembre 1990. Presidente della Corte di Assise di Appello era Vincenzo Palmegiano, mentre l'accusa era sostenuta dai pg Vittorio Aliquò e Luigi Croce.
La sentenza di Appello ridusse "in maniera cospicua le condanne emesse contro i mafiosi. Nello specifico, gli ergastoli passarono da 19 a 12 e le pene vennero ridotte di oltre un terzo, con 86 nuove assoluzioni. In particolare, la Corte smorzò la tesi dell’inderogabilità dell’impianto verticistico della Cupola mafiosa. Infatti, il 'teorema Buscetta' venne riconosciuto valido soltanto in riferimento ai fatti della seconda guerra di mafia, lasciando fuori gli omicidi 'eccellenti'".
Il processo si aprì il 9 dicembre 1991 presso la suprema Corte.
Fino a quel momento il giudice Corrado Carnevale, detto "l'ammazzasentenze" aveva emanato una serie di "decisioni molto discutibili" riguardo ai processi di mafia.
Si poté constatare inoltre "come egli avesse raccolto attorno a sé, all’interno della sua sezione, un gruppo ristretto di fedeli collaboratori uniti dall’adesione a un orientamento giurisprudenziale estremamente “garantista”. Qualcosa non andava. Così, quando il Maxi approdò in Cassazione, il primo presidente Antonio Brancaccio introdusse il meccanismo della 'rotazione' (voluto da Giovanni Falcone, ndr) dei presidenti delle Corti di Cassazione. Con grande sorpresa, dunque, il processo venne tolto alle 'grinfie' di Carnevale, finendo invece sul tavolo di un altro magistrato: il giudice Arnaldo Valente".
Il risultato fu una doccia fredda per tutta Cosa nostra: il 30 gennaio 1992 la suprema Corte confermò le sentenze del maxi processo, gli ergastoli e le altre condanne per i boss devennero definitivi.

La catastrofe
Cosa nostra dopo la sentenza della Cassazione decise di eliminare i vecchi referenti politici che non furono in grado di 'aggiustare' gli esiti del maxiprocesso.
"Per questo motivo - si legge sempre nel libro - occorreva studiare una strategia, che venne ufficialmente decretata dal gotha di Cosa Nostra nelle campagne di Enna tra l’ottobre del 1991 e il gennaio del 1992".
Poco dopo avvenne l'omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992) e il democristiano Ignazio Salvo (17 settembre 1992). "Bisognava lanciare un avvertimento a Giulio Andreotti che non si era fatto carico delle istanze della mafia dopo aver beneficiato per lungo tempo del suo sostegno: nulla sarebbe più stato come prima".


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Giulio Andreotti © Shobha


"In un documento riservato inviato il 16 marzo 1992 – solo quattro giorni dopo l’assassinio di Lima – dall’allora capo della polizia Vincenzo Parisi a prefetti e questori, all’alto commissario per la lotta alla mafia, al direttore della DIA e ai capi dei servizi segreti e militari, si attestava il timore, per il periodo marzo - luglio del 1992, di una 'campagna terroristica con omicidi esponenti DC, PSI et PDS, nonché sequestro et omicidio futuro Presidente della Repubblica. Quadro strategia comprendente anche episodi stragisti'. La nota evidenziava inoltre che affioravano 'fondati indizi in ordine at pretesa interrompere la linea statuale fermezza per recupero pieno della legalità et correlata esistenza progetto complessivo di destabilizzazione del sistema democratico nel nostro Paese, presumibilmente ad opera di centrali eversive compromesse anche a livello esterno in traffici illeciti'".
La mafia - ma non solo la mafia - si stava preparando per la campagna terroristica più cruenta della storia repubblicana.
Una stagione in cui una certa parte dello Stato anziché contrastare la fazione stragista corleonese si diede da fare per trattare.
"Numerose sentenze divenute definitive non solo hanno confermato che l’invito al dialogo venne effettivamente avanzato, ma anche che la trattativa – nata con l’obiettivo di fermare le stragi – fu in realtà foriera dell’effetto opposto, convincendo gli uomini d’onore che la strategia stragista pagasse. Inducendoli, dunque, a continuare a mettere a ferro e fuoco lo 'Stivale' con le bombe a Roma, Milano e Firenze del 1993, in cui persero la vita dieci civili".
Va ricordato che "a mettere un punto fermo sull’esistenza della Trattativa Stato-mafia, nonché sui suoi catastrofici effetti, furono le sentenze partorite dal processo contro il mafioso Francesco Tagliavia, condannato all’ergastolo per la strage di via dei Georgofili del 27 maggio 1993. 'Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des; l’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia; l’obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno d’intesa con Cosa Nostra'".

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