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A Palermo il dibattito tra il pm e gli studenti di Giurisprudenza. Intervenuta anche la docente Chinnici che ha definito “obbrobrio” il Maxi processo

La riforma Cartabia e le riforme più volte annunciate dal ministro Nordio a mio avviso vanno nella stessa direzione che non è quella di rendere più efficiente e veloce la giustizia ma quella di renderla sempre più debole e con le armi spuntate nei confronti dei crimini dei colletti bianchi. In questo senso la riforma Cartabia ha aperto il varco e le eventuali riforme di Nordio darebbero la spallata definitiva al nostro sistema Costituzionale”. Sono parole nette quelle pronunciate da Nino Di Matteo, attuale magistrato impiegato alla Procura nazionale antimafia, nel corso della conferenza tenutasi giovedì pomeriggio all'Aula Chiazzese della facoltà di Giurisprudenza di Palermo, organizzata dall’associazione “Contrariamente”. Di Matteo ha risposto alle numerose domande e curiosità dei giovani studenti sulle riforme inerenti alla lotta alla mafia e sui mutamenti sia della legislazione antimafia, che della classe politica, dal 1992, anno delle stragi, al giorno d’oggi in cui, di recente, di quelle stragi è stato catturato l’ultimo dei boss mandanti ancora libero: Matteo Messina Denaro. Su questi temi è ruotata l’iniziativa pensata dai giovani universitari che hanno invitato l’ex consigliere togato del Csm a un confronto molto interessante e molto approfondito. Di Matteo ha incentrato la propria attenzione in primis sulla questione giustizia e sulle nefaste riforme dell’ex ministra Marta Cartabia, passando poi alle riforme ancora in cantiere, ma parimenti nefaste, dell’attuale ministro Carlo Nordio. Riguardo alla riforma Cartabia, il magistrato ha ricordato l’introduzione del meccanismo dell’improcedibilità che “non ha pari negli altri sistemi processuali occidentali, è la legalizzazione della resa dello Stato di fronte all’incapacità o alla mancanza di volontà di rendere più veloce il processo. A scapito della società che aspetta una risposta”.


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L’improcedibilità, ha infatti spiegato il magistrato ai ragazzi, prevede che “se un processo non si conclude nella fase di Appello o Cassazione entro un tempo prestabilito, il processo va in fumo. E’ come se non fosse mai iniziato e questo non pregiudica soltanto quelli che sono stati gli sforzi del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, ma soprattutto pregiudica, da una parte, i diritti delle persone offese dai reati e dall’altra le aspettative dei cittadini che hanno diritto di sapere”, ha affermato Di Matteo. “Ma c’è anche un pregiudizio perfino per lo stesso imputato che comunque non avrà mai nemmeno il diritto di sapere se i magistrati lo considerano colpevole o innocente”.
Sempre riguardo alla riforma dell’ex Guardasigilli, Di Matteo ha voluto sottolineare ciò che pochi ricordano ovvero che nella riforma “è previsto che annualmente il Parlamento preveda le linee guida dei criteri di priorità ai quali le procure della Repubblica dovranno sottostare nell’esercitare l’azione penale. Quindi annualmente - ha spiegato il magistrato in parole povere - è la politica a dire: ‘Quest’anno prima perseguiamo i furti e gli scippi e se rimane tempo l’abuso d’ufficio, la corruzione, la concussione’”.
Questo, secondo Di Matteo, “è un principio che comincia a introdurre il germe della violazione della separazione dei poteri dello Stato. Questa riforma, nel silenzio più assoluto e nella condivisione di quasi tutti gli schieramenti politici, è stata votata ed è entrata in vigore”, ha ricordato il procuratore.


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Secondo Di Matteo, però, “c’è una sostanziale continuità con la riforma Cartabia per quanto riguarda il progetto di riforma della giustizia del governo Meloni e del ministro Nordio”. “Vengono annunciate riforme costituzionali sulla separazione delle carriere di pubblico ministero e giudice sull’abolizione del principio della obbligatorietà dell’azione penale. Vogliono riformare la Costituzione alla quale noi invece dovremmo imparare ad obbedire veramente. Il problema - ha osservato l’ex consigliere del Csm - non è riformare i principi costituzionali, ma applicarli. Cartabia e Nordio si muovono nelle stesse direzioni, ridimensionare la magistratura per controllare, direttamente o indirettamente, il suo operato. Il sistema intende blindarsi, vuole essere ora e in futuro affrancato da ogni possibile controllo dalla magistratura”, ha denunciato il magistrato. Il sistema “vuole una magistratura collaterale, debole con i forti, asservita e governata dalle stesse logiche opportunistiche del potere politico ed economico. E in parte ci sta riuscendo”, ha osservato. “Vogliono una magistratura dominata dal carrierismo, vogliono una magistratura caratterizzata soltanto dall’attenzione alla produttività, ai numeri, alle statistiche. Caratterizzata da un atteggiamento burocratico che la tenga lontana dalle grandi inchieste sulla criminalità del potere. E’ questo a cui oggi si mira”, ha sottolineato Di Matteo. Si mira alla “valutazione del magistrato come capacità di smaltire i fascicoli”. Scendendo nel pratico, per spiegare meglio il concetto agli studenti, Di Matteo ha riportato quella che è la sua esperienza con la toga.


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Io ho fatto per trent’anni il pubblico ministero. Se voglio smaltire un fascicolo lo prendo e lo archivio. A me, però, hanno insegnato che il pubblico ministero si fa in un altro modo e cioè svolgendo le indagini e facendo tutto il possibile per cercare di capire se c’è un reato, per cercare di capire chi l’ha commesso e portarlo a giudizio”. Oggi, invece, si vuole “l’attenzione soltanto alle statistiche e ai numeri”. Quindi Di Matteo ha ricordato un aneddoto riguardante i suoi primi anni in magistratura. “Quando nel 1996 feci il processo sulla strage di Rocco Chinnici, il primo attentato con autobomba a Palermo, mi colpì una parte dell’agenda di Chinnici. In quell’agenda Chinnici scriveva che nel 1982, quando Giovanni Falcone aveva iniziato a lavorare nel suo ufficio, ‘mi ha chiamato il procuratore antimafia e mi ha detto chiamati Falcone e sommergilo di 'processetti così non mette in pericolo l’economia siciliana con le sue indagini bancarie e patrimoniali’. Quando oggi vedo che tutte le riforme vanno in questo senso, cioè esaltano soltanto la produttività, come se il magistrato fosse uno che deve smaltire numeri, io penso sempre a quelle parole lì”, ha confessato Di Matteo. “Io penso che molte di queste riforme, vogliono lasciarsi definitivamente alle spalle non solo i grandi processi ma anche le grandi inchieste e io penso che bisogna opporsi con tutte le argomentazioni possibili, e nel rispetto delle opinioni altrui, a questa restaurazione perché opporsi è sinonimo di una lotta a tutela della nostra libertà della nostra democrazia e della nostra Costituzione”.


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Dure critiche alle riforme spinte da Nordio
Sempre rispetto alle riforme sulla giustizia Di Matteo si è soffermato a lungo parlando delle norme che Carlo Nordio intende inserire nella riforma che sarà licenziata entro maggio.
Leggo in questi giorni che nella riforma Nordio sarebbe inserito un divieto di pubblicazione di tutte le intercettazioni, anche quelle utili al processo, fino alla richiesta di rinvio a giudizio. Quindi se un soggetto viene arrestato perché dalle intercettazioni risulta un determinato contatto criminale, corruttivo o di tipo diverso, si direbbe che comunque quell’intercettazione, non più segreta, non venga comunque pubblicata fino al processo. Quindi il cittadino non deve nemmeno conoscere, per esempio, le parole dette ad un criminale da un politico che ha votato o andrà a votare finché non andrà a processo”, ha riassunto Di Matteo. “Rimango veramente perplesso perché gli abusi della diffusione di parti di intercettazioni che non sono eventualmente rilevanti vanno colpiti ma per fare questo ci sono già i mezzi, ma non si può buttare il bambino con l’acqua sporca”, ha affermato. “Non si può non far conoscere nulla al cittadino finché non c’è il processo, anche se quella cosa non è più coperta da segreto. Questo significa bavaglio. Oppure si dice limitiamo il budget per le intercettazioni. Prima fesseria che ci fanno credere è che in Italia si fanno più intercettazioni giudiziarie che altrove. Non è così, in Italia si fanno più intercettazioni giudiziarie ma ogni intercettazione è richiesta da un pm e autorizzata da un giudice. Ogni prova deve essere autorizzata da un giudice”, ha spiegato Di Matteo agli studenti. “In altri sistemi, come quelli anglosassoni, ci sono le cosiddette intercettazioni preventive dei servizi segreti che possono intercettare chi vogliono, quando vogliono senza rendere conto di quello che fanno a nessuno e senza coinvolgere l’autorità giudiziaria. Quindi non è vero che in Italia si intercetta di più rispetto ad altri paesi. Quando si parla dei costi delle intercettazioni, io dico questo, intanto da una parte sul piatto della bilancia mettiamo i costi ma, dall’altro, quella della costellazione di vite salvate dalle intercettazioni. E sono tantissime, credetemi. Quanti soldi sono stati confiscati alle mafie grazie alle intercettazioni, quanti episodi di corruzione?. Non è limitando le intercettazioni che si limitano i costi forse sarebbe sufficiente che lo Stato utilizzasse i mezzi per farle senza appaltarle a privati”, ha concluso sul punto.


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La polemica della docente di procedura penale sul maxi processo
Durante la conferenza non sono mancati momenti di discussione accesa tra Di Matteo e la docente di procedura penale Daniela Chinnici la quale, nella sua introduzione aveva fatto dure osservazioni sulle modalità con cui venne svolto il Maxi processo a Cosa Nostra. La professoressa è arrivata a definirlo, nella sua disamina sui principi di diritto, “un obbrobrio” oltre ad aver parlato di una deriva inquisitoria del codice penale ed asserire che ai processati per mafia non vengano riconosciute le stesse garanzie processuali concesse ad imputati per altri reati. Una posizione che ha lasciato increduli alcuni degli studenti in aula e lo stesso Di Matteo che le ha replicato: “Io non ho visto nessuna svolta inquisitoria dal 1992, così come mi sembra che parlare di svolta inquisitoria del codice penale non sia condivisibile. Io in trent’anni - ha continuato - non ho mai visto, né nei processi che ho fatto io né in quelli di altri pubblici ministeri nella fase dibattimentale, non rispettate le garanzie dibattimentali dell’imputato né nei processi per furto, né per quelli per omicidio o strage. Le regole del dibattimento sono quelle e i giudici sono obbligati ad applicarle nella maniera imparziale e ugualmente per tutti. Non c’è una sola norma nel codice penale, soprattutto nella fase che riguarda il dibattimento e il giudizio, che possa fare considerare insussistenti le garanzie per imputati di mafia. E - ha concluso sul punto Di Matteo - senza fare polemica mi fa specie che proprio qui, in quest’aula, si parli dell’obbrobrio del maxi processo”. Anche a uno studente, poi intervenuto per rivolgere una domanda al magistrato, hanno fatto specie le uscite della docente.
Mi sono fatto la mia opinione sul suo intervento. Secondo me si può utilizzare la parola ‘obbrobrio’ se la si mette tra virgolette e si aggiunge la parola ‘necessario’”, ha detto lo studente. “Secondo me il maxi processo è stato un ‘obbrobrio necessario’ perché è stato un processo con tantissimi imputati, che si è articolato nell’immediatezza dei fatti andando a costruire, per esempio, una struttura tutt’oggi funzionante. E’ stato un processo fondamentale dal punto di vista giuridico perché ha cristallizzato la struttura mafiosa siciliana. Inoltre è stato un processo dove le garanzie degli imputati sono state adeguatamente salvaguardate”.


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Della stessa idea è stato anche Nino Di Matteo. “Con il maxi processo si è riconosciuta giudiziariamente l’esistenza di Cosa Nostra, la sua struttura piramidale e le regole di funzionamento. Il maxi processo, frutto del lavoro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è stata una svolta nella lotta al sistema mafioso”, ha affermato. Quindi la docente si è soffermata sul fatto che non dovrebbero essere concepiti maxi processi come quello del 1986. “No ai maxi processi sì alle maxi indagini”, ha affermato la professoressa sostenendo che il maxi processo è stata “un’esperienza fallimentare” dato che “non ce ne sono stati più di processi di questo tipo”. “No al maxi processo, si alle maxi indagini deve essere la pietra miliare del nuovo processo”.
Di Matteo le ha quindi fatto notare che dopo il maxi processo se ne sono celebrati altri con un numero di imputati elevato e una costruzione simile. “Se ci sono stati altri maxi processi allora questa è un’altra distorsione, è un altro congegno eversivo del sistema, perché tanto ci siamo abituati”, ha quindi replicato la docente. Immediata, però, è stata la risposta del magistrato che si è dissociato dalle esternazioni della Chinnici. “Parlare addirittura di congegno eversivo rispetto a ciò che ha consentito di accertare la responsabilità di centinaia di persone per decine di omicidi e stragi per me non è opportuno. Parlare di questi sforzi che sono costati la vita a tanti miei colleghi a tanti servitori dello Stato come congegno eversivo è una cosa che io non concepisco”, ha detto seguito da un forte applauso dell’intera aula. Quindi la docente ha raddrizzato il tiro. “Non mi sono saputa spiegare. Non mi riferivo a qualcosa di realistico (intendendo il maxi processo a Cosa Nostra, ndr). Io dico che il maxi processo, rispetto al sistema accusatorio, è un congegno eversivo rispetto a come il sistema è stato costruito. Mi riferivo al maxi processo come costrutto giuridico. Il maxi processo non è possibile che sia accettabile perché la responsabilità penale e personale deve essere tarata il più possibile sulle persone e non su centinaia di imputati”.


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Foto © ACFB



Ergastolo ostativo e 41bis
Dopo il dibattito acceso tra Di Matteo e la Chinnici, è stato il turno delle domande degli studenti. Tra le tante, si è parlato dell’ergastolo ostativo e del 41bis, misure fondamentali nel contrasto alle mafie, nonché argomenti di cui gli studenti di giurisprudenza potrebbero probabilmente occuparsene un giorno quando diventeranno giudici, pm o avvocati.
L’ergastolo ostativo è una previsione introdotta su spinta di Giovanni Falcone e venne approvata subito dopo la strage di Capaci. La norma prevede che nei casi più gravi di ergastoli comminati per delitti di mafia, quindi non per tutti i mafiosi né per tutti gli ergastoli, i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, i permessi premio e la liberazione condizionale - ha spiegato Di Matteo agli studenti - non possono essere concessi se il mafioso non ha, nel frattempo, iniziato a collaborare con la giustizia. Questa era la norma”. “Voglio dirvi che ormai è esperienza acquisita che nella vita di un mafioso la detenzione temporanea è considerata una parentesi normale, non incide sul prestigio criminale, anzi spesso lo rafforza”, ha affermato. “I mafiosi 10, 20 anni di detenzione li affrontano. In una circostanza, confermata anche in sentenze definitive, Riina diceva che bisognava evitare l’ergastolo. Lo diceva perché, insieme al 41bis, mette in difficoltà l’uomo d’onore condannato perché ne mette in difficoltà il ruolo, come invece lo mantiene quando il carcere è temporaneo e consente di mantenere i contatti con l’esterno”. E proprio in questa ottica il magistrato ha ricordato che quando Riina concepì le stragi, dopo l’inizio della trattativa, “una delle prime richieste che fece pervenire allo Stato era relativa all’abolizione dell’ergastolo, inteso come fine pena mai, e all’abolizione o alleggerimento del 41bis. Prima del 41bis, per esempio, si parlava del ‘Gran Hotel Ucciardone’ cioè del carcere di Palermo dove al tempo erano detenuti quasi tutti i capi mafia, i boss continuavano a fare quello che volevano e i capi, come confermano decine e decine di sentenze passate in giudicato, i capi detenuti continuavano ad ordinare omicidi. Questo è quello che vi voglio dire intanto sul 41bis”, ha detto.


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E sempre sul punto il sostituto procuratore della Dna ha aggiunto “che il 41Bis non è e non deve essere concepito come ulteriore afflizione del detenuto ma una misura di carattere preventivo. Non serve a far soffrire il detenuto, ma semplicemente ad evitare che chi all’interno dell’organizzazione mafiosa ha esercitato un ruolo di comando non continui a mantenerlo dal carcere. Questo bisogna assolutamente comprenderlo. Come serve comprendere che oggi, da molti anni, le speranze dei condannati per le stragi, quelli che avevano messo le bombe per ottenere l’allentamento dell’ergastolo ostativo e il 41bis, sono state in qualche modo alimentate dalle pronunce, prima della corte europea dei diritti dell’uomo nel 2019 (“sentenza Viola contro Stato Italiano”, ndr) e poi nel 2021 dalla sentenza della Corte Costituzionale. Forse non abbiamo voluto spiegare all’Europa la peculiarità del sistema mafioso. Il sistema mafioso prevede una tendenziale perpetuità dell’appartenenza mafiosa. I mafiosi veri sono tali 24 ore su 24 e 365 giorni l’anno e antepongono il loro giuramento di fedeltà a qualsiasi esigenza. I mafiosi sanno benissimo che da Cosa Nostra si può uscire solo in due modi: o con la morte oppure spezzando il vincolo di solidarietà con l’organizzazione. Ma non si può spezzarlo con un atteggiamento che rimane chiuso nel proprio intimo. Gli altri associati devono percepire quella persona come non più affidabile e l’unico modo per rompere il vincolo è collaborare con la giustizia. Queste sono le peculiarità che dobbiamo tenere presente”. Come c’è da tenere presente, ha continuato Di Matteo, “che ci sono delle sentenze che hanno aperto un varco”. “Ora questo governo cerca di mettere dei paletti piuttosto alti, ma hanno comunque aperto quelle sentenze un varco perché chi ha messo le bombe nel 1992 e 1993 oggi paradossalmente è il primo a poter godere di quei benefici. Perché sono passati 30 anni e quindi aspirano ad arrivare a quel tipo di ottenimento di quel principio”.


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Il connubio mafia-politica
Agli studenti Di Matteo, nel corso delle varie domande che gli sono state poste, ha parlato del secolare connubio tra mafia e politica e lo ha fatto lanciando uno spunto di riflessione, uno dei tanti in realtà. “Dopo 31 anni di attività di pubblico ministero quasi tutti spesi nel contrasto alla criminalità organizzata voglio lanciarvi questo come punto di riflessione. La mafia siciliana è riuscita ad esercitare un ruolo di primo piano perché ha da sempre nel suo Dna la capacità di tessere i rapporti con il potere”, ha detto il magistrato. “Se l’Italia da 160 anni non riesce a venire a capo del fenomeno mafioso, nonostante 17 commissioni antimafia, è perché si nutre della ricerca del rapporto politico, istituzionale e finanziario. Il collegamento tra l’ala militare e il potere è stata rappresentata da quella che viene chiamata borghesia mafiosa: agrari, medici avvocati e proprietari terrieri che si prestano ad agevolare gli obiettivi di Cosa Nostra. La forza di Cosa Nostra è questa, la zona grigia, la borghesia mafiosa”, ha affermato Di Matteo. Ma l’altra forza della mafia è anche l’assenza di responsabilità politica nei confronti di quei politici che vengono accusati o addirittura condannati per aver avuto rapporti di intesa, per aver fatto affari, con esponenti mafiosi.


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Il dramma di questo paese è che l’unica responsabilità che si fa valere per determinate condotte è quella penale. In Italia sembra non esistere altra responsabilità se non quella penale. Se un fatto passa in giudicato allora forse scattano determinate responsabilità, altrimenti non c’è mai alcuna responsabilità di tipo politico di comportamenti accertati”, ha denunciato l’ex consigliere del Csm ricordando come modello di responsabilità politica e questione morale (per citare Enrico Berlinguer) l’esempio di Pio La Torre che denunciava le collusioni dei politici, prendendo provvedimenti, ancor prima che catturassero le attenzioni dell’autorità giudiziaria. “Paolo Borsellino diceva ai ragazzi che il dramma del nostro Paese è che se non c’è un reato non c’è nulla”, ha commentato Di Matteo sul punto. “Oggi purtroppo le responsabilità non scattano nemmeno quando ci sono le sentenze ed è un problema perché il sistema mafioso non possiamo combatterlo nelle aule di giustizia e nelle indagini, io sono per una politica in prima linea, se c’è una fotografia o un’intercettazione tra un mafioso e un politico, non serve una sentenza per trarre delle conseguenze a livello politico”. Rispondendo poi a una domanda sul potere, Di Matteo ha detto che “la tentazione del potere, di ottenerlo e mantenerlo, è una brutta bestia. Quando il potere diventa esercizio del potere per mantenerlo si creano delle degenerazioni nella nostra democrazia”. Ma come si può sconfiggere questa logica, come si può sconfiggere la criminalità organizzata e la mentalità mafiosa? 


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La prima condizione è che lo Stato faccia il proprio dovere, la seconda è che la politica non si nasconda, la terza è una rivoluzione culturale che parta soprattutto dai giovani”, ha spiegato Di Matteo. “Perché c’è la mafia ma c’è anche un humus nel quale la mafia prospera, quella della logica mafiosa, dell’appartenenza a gruppi dai quali poter ottenere vantaggi. Tutte queste cose costituiscono il terreno fertile su cui coltivare la mafia”, ha affermato. “Non ho mai creduto a ciò che noi anziani diciamo spesso, che i giovani pensano solo a loro stessi, non è così. I giovani hanno bisogno di trovare stimoli e capire che si può cambiare. Io sono cresciuto in una Palermo in cui le cose che sentivo dire più spesso, anche da persone per bene, ‘ma tanto le cose non cambieranno mai’. Io invece sono convinto che le cose possono cambiare come sono già cambiate, perché ai miei tempi in quest’aula non c’era la possibilità di fare questo tipo”.

Il messaggio ai futuri esperti del diritto
Avviandosi verso la conclusione Nino Di Matteo ha salutato gli studenti di legge con un messaggio che ha spezzato la barriera istituzionale che poteva caratterizzare l’evento.


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Molti di voi dicono che vogliono fare il magistrato, io sono felicissimo quando sento dire queste cose però voglio dirvi che la magistratura è una componente essenziale della nostra democrazia. L’autonomia e la libertà dei magistrati sono a tutela dei più deboli. Il magistrato che svolge bene il suo ruolo lo svolge a tutela degli emarginati, dei più deboli”, ha esordito. “La magistratura è complessa e non va idealizzata come se fosse tutta intatta da quelli che sono i germi del potere. Avete letto sicuramente tanto sugli omicidi di tanti magistrati e sapete bene che purtroppo il loro isolamento e delegittimazione è partito anche dalla magistratura. Non dimentichiamolo. Così come non dobbiamo pensare che nel nostro tessuto sociale ci sia il bianco e il nero, nella nostra città, e lo dico soprattutto da palermitano, c’è anche tanto grigio. Quando Falcone e Borsellino istituirono il maxi processo certi magistrati dicevano che erano politicizzati. La borghesia palermitana, qualche magistrato e molti ambienti di avvocatura che frequentavo, dicevano ‘si è messo la bomba da solo’. E quella costituì un’umiliazione di Falcone, eteroguidata dalle menti raffinatissime, e partita da parte di ambienti insospettabili, anche di colleghi”, ha rammentato con amarezza il sostituto procuratore nazionale antimafia.


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Il bello del lavoro di magistrato è uno solo, l’autonomia e l’indipendenza ma per conservarle bisogna partire da un dato: non bisogna aspirare a fare carriera. Quando c’è un’inchiesta da fare il magistrato se vuole essere autonomo e indipendente non può porsi il problema di essere gradito. Non deve seguire il consenso di nessuno. Deve stare molto attento a coltivare la propria indipendenza e imparzialità della magistratura”, ha spiegato davanti a una platea di studenti che ascoltavano con grande attenzione le sue parole. “In questi anni di esperienza al CSM ho cercato soltanto di difendere i magistrati che si fossero dimostrati imparziali e indipendenti. Il problema è quello di cedere la propria indipendenza e imparzialità a logiche di potere che spesso sono viziate da logiche di carriera. L’autonomia e l’indipendenza si nutrono ogni giorno ma con una fatica veramente notevole. A chi vorrà fare il magistrato un giorno auguro di conservare questa indipendenza e imparzialità perché altrimenti è un lavoro insopportabile. Se non lo si concepisce come servizio alla società diventa un lavoro insopportabile. Se sai che fai quella cosa perché stai difendendo un principio o i più deboli e ti poni in un’ottica di servizio allora qualsiasi peso può essere sopportato”.

Foto © Paolo Bassani




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