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Il ricordo di una generazione cresciuta nel regno del Cavaliere

Volente o nolente, con la morte di Silvio Berlusconi se n’è andato anche un pezzetto della storia di ognuno di noi post-Millennials. Il sorriso sornione dell’ex premier, il marcatissimo accento milanese, l’imbarazzo che contraddistingueva le sue trasferte e il suo protagonismo politico e mediatico hanno accompagnato - ribadiamo, volente o nolente - le fasi principali della nostra infanzia e adolescenza. Chi ci ha preceduto è venuto su con il Berlusconi imprenditore, noi con il Berlusconi politico, padre prima di Forza Italia e poi del PDL. Il suo volto era ovunque, i suoi soprannomi (“il Cavaliere”, “B.”, “il Caimano”), pure. Dal 1994 al 2011, periodo del regno intermittente del “Cavaliere” a Palazzo Chigi, noi della “Generazione Z” (intesa come la generazione che va dalla metà degli anni ’90 fino al 2010 circa) lo abbiamo avuto nelle nostre case. Lo intravedevamo la mattina prima di preparare “la cartella” di scuola, sulle copie di Repubblica che compravano mamma o papà quando Scalfari (chissà come commenterebbe oggi la sua morte) era bravo al tempo a ricordargli gaffe e disastri in Parlamento; ce lo ritrovavamo di ritorno a casa, all’ora di pranzo, su “Studio Aperto”, prima di “Dragon Ball Z” alle 13.45; nei salotti televisivi la sera, sul divano con i nostri genitori, da Porta a Porta, con Vespa che gli “aggiustava” la cravatta a sette pieghe (rigorosamente azzurro forzista), a Santoro col quale si scornò in diretta su “Servizio Pubblico”. Lo vedevamo nei TG scherzare con i potenti della terra più inconciliabili, da Bush a Putin, da Gheddafi a Sarkozy. Lo trovavamo a San Siro a seguire il suo Milan in Champions League; sui cartelloni pubblicitari in stazione, sui camion vela, tra le piazze che lo contestavano, alle cene coi parenti, nelle barzellette sessiste, tra gli stereotipi dei turisti in vacanza (“Italia? Pasta, pizza and ‘Bunga Bunga’”). Se Berlusconi fosse una merenda della nostra adolescenza sarebbe certamente un barattolo di Nutella: di fama mondiale, tanto zuccherata quanto dannosa per le nostre arterie e per l’ecosistema.
Nel corso della nostra crescita Berlusconi è stato un po’ dappertutto senza che lo sapessimo, per ovvie ragioni anagrafiche. Era tra le righe dei romanzi della Mondadori che più amavamo e dietro le quinte delle trasmissioni che più seguivamo, da “Amici” di Maria De Filippi, al game “Chi vuole essere Milionario” di Gerry Scotti, rigorosamente su Canale 5. Tutto, o quasi, era ed è - ribadiamo ancora, volente o nolente - di proprietà Berlusconi o pensato da Berlusconi. In un’Europa post Muro di Berlino, e in un’Italia post “Mani Pulite”, Berlusconi è stato “il nuovo che avanza”. E’ stato il condottiero italiano del nuovo millennio, delle reti private e della globalizzazione, riuscendo a infatuare mezzo paese col suo modo unico di bucare gli schermi e di vendersi agli elettori.
Col tempo, poi, alcuni di noi hanno iniziato a capire chi fosse questo sovrano senza regno che ha cambiato le regole della politica, dell’urbanistica e della televisione italiana. E lo abbiamo capito grazie agli scandali che lo hanno inseguito in tutto lo Stivale e che, in questi giorni, solo alcuni giornali seri ricorderanno.
Berlusconi è il signore di “Publitalia”, di “Fininvest”, è l’uomo delle antenne, di Rete 4, delle veline, delle pubblicità. Berlusconi è il patron di Forza Italia, con la quale salì a Palazzo dopo aver finanziato la mafia da imprenditore. Berlusconi è l’uomo che costruì lo sfregio urbano di “Milano 2” per cui fece dirottare gli aerei nella vicina Segrate, prima truffa di una lunga carriera. E’ il senior occulto di società finanziarie straniere semi-sconosciute. E’ la tessera 1816 della P2. E’ il “conte” di Arcore, una reggia che strappò a prezzo irrisorio ad una marchesina 19enne, da poco divenuta orfana, grazie all’avvocato del futuro “Lodo Mondadori”, Cesare Previti (uno dei tanti pregiudicati che hanno accompagnato il Cavaliere). Berlusconi è il datore di lavoro di Vittorio Mangano, ufficiosamente stalliere, in realtà boss mafioso mandato ad Arcore dalla mafia per assicurarsi la riscossione di miliardi di lire dall’imprenditore milanese. Berlusconi era premier nei momenti che più hanno segnato la nostra epoca. Era premier l’11 settembre. Era premier all’indimenticabile G8 di Genova. Era premier la notte della “macelleria messicana” alla Diaz. Era premier nelle guerre NATO in Iraq e Afghanistan (per le quali mandò contingenti militari). Berlusconi è l’uomo forte, il corruttore graziato da giudici compiacenti e prescrizioni varie. E’ quello dell'"Editto Bulgaro" (altroché l’addio alla Rai di Fazio e Annunziata di questi giorni). E’ l’uomo delle “olgettine”, del caso “Ruby Rubacuori”, per cui 314 deputati si prostrarono in Parlamento votando che la giovane marocchina era per lo Stato italiano la nipote di Mubarak. Berlusconi è il premier finito a processo trentasei volte, otto volte prescritto e dieci archiviato. Ed è stato anche la quarta carica dello Stato che lo Stato lo ha frodato. In trent’anni è stato accusato di tutto, di finanziamento illecito, di divulgazione di segreto d’ufficio, di falsa testimonianza, di corruzione a giudici ed escort, di essere mandante delle stragi del ’93. Ma oltre agli scandali giudiziari o alla sua considerazione della donna, la nostra generazione ha conosciuto Berlusconi per le conseguenze catastrofiche del suo mal governo. Senza rievocare le intramontabili leggi ad personam fatte per salvare sé stesso, le sue aziende e i suoi lacchè dai temuti “giudici comunisti” (celebre il “Lodo Schifani”, poi “Lodo Alfano”, che vietava la sottomissione a processo delle cinque cariche dello Stato), i vari governi Berlusconi sono stati autori di riforme che sono piombate come macigni sulle nostre giovani schiene. Dalla “Legge Bossi-Fini” che dal 2002 disciplina in modo repressivo l’immigrazione, alla “Legge Biagi” che aprì al precariato come fondamento del mercato del lavoro, fino alla “Riforma Moratti” che riduceva drasticamente l’insegnamento di storia, geografia e scienze o alla “Riforma Gelmini”, mostro sacro delle scuole primarie (chi scrive frequentava la 5° elementare al tempo), contestata da presidi e docenti. E ciò che più ha dell’incredibile è che tramontato Berlusconi, continua a sopravvivere il “berlusconismo”, cioè quella dottrina non scritta per cui si deve garantire lo strapotere dei pochi a discapito dei tanti; la torsione imprenditoriale della democrazia e lo smantellamento di conquiste e diritti. Con il tempo ci siamo accorti che le nostre scelte di vita sono state condizionate da questa figura ingombrante. Con Berlusconi l’Italia è cambiata. C’è un Italia pre-Berlusconi e un’Italia post-Berlusconi. E, purtroppo, molti italiani in lui, al tempo (e alcuni tuttora) ci si sono rispecchiati alla grande. Hanno trovato nel Cavaliere un idolo da emulare, un decisionista armato di strafottenza e carisma. Una figura astuta che scavalcando le regole democratiche ha assecondato ogni suo vizio senza pagarne le conseguenze. L’immaginario collettivo di Berlusconi premier, padrone di tre canali privati (con lui il conflitto d’interessi andò a farsi benedire), di business man eccentrico e donnaiolo ha solleticato la fantasia di tanti. Il cantautore Gian Piero Aloisio diceva: “Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”. Come a intendere che in realtà, forse, c’è un piccolo Berlusconi in ognuno di noi, nella nostra vita di ogni giorno.
C’è chi, crescendo, Berlusconi lo ha amato e ne ha sposato la furbizia e il modello ultra-liberale costruendoci carriere in nome del profitto. E c’è chi, invece, magari perché cresciuto in una famiglia attenta alle cronache, lo ha ripudiato da sempre, cercando di raggiungere modelli di riferimento diametralmente opposti al suo e rifacendosi ad etica e legalità come bussole di cittadinanza.
Come in vita, anche ora che è morto l’Italia è spaccata a metà tra chi lo piange e chi vuole dimenticare una delle personalità più impresentabili della storia di questo Paese. Di certo c’è solo una cosa: la sua abilità nel far parlare di sé. E questa - precisiamo, nolente o nolente - resterà tale, come da 30 anni a questa parte, nelle generazioni che verranno.

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