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Pene basse e decine di prescrizioni: ecco come si sono ‘salvati’ i funzionari di Polizia responsabili per le violenze al G8 del 2001.
A vent’anni di distanza sappiamo la verità emersa nei processi sul G8 di Genova. Sappiamo chi ordinò la perquisizione della scuola Diaz e la mattanza che ne scaturì. Sappiamo, almeno in parte, chi torturò i manifestanti arrestati (e poi in gran parte prosciolti) nella caserma di Bolzaneto. Sappiamo chi caricò il corteo delle tute bianche su Via Tolemaide, dai cui scontri scaturì la morte di Carlo Giuliani.
Dopo vent’anni conosciamo la verità, ma l’abbiamo dimenticata.
Facciamo quindi una sintesi dei principali funzionari delle forze dell’ordine, a cui era stata affidata la gestione dell’ordine pubblico al G8 del 2001, finiti nelle carte della Procura di Genova durante la maxi inchiesta sulla Polizia.
Partiamo con ordine.
Il 20 luglio 2001, alle ore 15:10, il battaglione Lombardia dei Carabinieri, comandato dal dirigente Mario Mondelli, diretto a Marassi per fronteggiare i black bloc che stavano assaltando il carcere, viene fatto scendere dai blindati in prossimità di Via Tolemaide, dove stava transitando (con regolare autorizzazione) il corteo delle Tute bianche. I 200 Carabinieri, dotati del nuovo manganello Tonfa (e alcuni anche di armi fuori ordinanza, tra cui mazze di ferro), caricano i manifestanti, provocando una guerriglia di due ore per le strade di Genova. Durante il processo contro i 25 manifestanti fermati durante gli scontri, il capitano Antonio Bruno ammetterà di essere stato lui ad aver ordinato la carica, dopo che il contingente dei Carabinieri era stato colpito da un fitto lancio di oggetti da parte della testa del corteo. Di questo presunto linciaggio, sui video esaminati in tribunale non vi è traccia. “Non è facile – scrivono i giudici d’appello – comprendere a questo punto perché Bruno e Mondelli ritennero di contrastare il corteo”. E ancora: “La carica si pone come un atto illegittimo poiché attuata contro un corteo non vietato e pacifico”. La corte di primo grado inviò gli atti alla Procura per valutare l’ipotesi di falsa testimonianza nei confronti dei due militari ma, ad oggi, non risultano dagli organi di stampa nuovi procedimenti penali aperti nei loro confronti. A distanza di vent’anni, l’intera vicenda è caduta in prescrizione, lasciando così in sospeso la questione più spinosa: chi ordinò la carica? E perché?
Privi di qualsiasi codice identificativo non è stato possibile risalire ai nominativi degli agenti di Polizia e Carabinieri provvisti di manganello fuori ordinanza.
Il giorno seguente, dopo i nuovi scontri tra Polizia e black bloc (che si erano infiltrati anche nel corteo finale del Genoa Social Forum), è tempo della perquisizione alla scuola Diaz. Un’operazione che termina con l’arresto in flagranza di 93 persone, di cui ben 78 avranno bisogno di cure mediche per le botte e le contusioni rimediate dopo l’irruzione delle forze dell’ordine. Le testimonianze parlano di pozzanghere di sangue, ciocche di capelli impastate ai termosifoni e urla strazianti provenienti all’interno della scuola. Lo stesso comandante del settimo nucleo di Roma Michelangelo Fournier la descriverà come una scena da “macelleria messicana”. Ne fa un’efficace riassunto la Corte Europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 7 aprile 2015: “Alcuni agenti si accanirono su degli occupanti che erano seduti o allungati per terra. Alcuni degli occupanti (…) furono colpiti mentre si trovavano ancora nei loro sacchi a pelo; altri lo furono mentre tenevano le braccia in alto in segno di resa o mostravano le loro carte d’identità. Altri occupanti tentarono di scappare e si nascosero nei bagni o nei ripostigli dell’edificio, ma furono riacciuffati, colpiti, talvolta tirati fuori dai loro nascondigli per i capelli”. Nella conferenza stampa del 22 luglio 2001, la Polizia dichiarò di avere ritrovato nella Diaz divise nere, strumenti di offesa (come mazze e picconi) e due bottiglie molotov. La Corte di Cassazione bollò le prove presentate dalle forze dell’ordine come una “scellerata operazione mistificatoria” volta a giustificare le violenze contro gli occupanti. Difatti, scrivono i giudici d’appello, “risulta incontestabile che le molotov giunte alla scuola Diaz erano state rinvenute in Via Medaglie d’oro dal vicequestore Pasquale Guaglione nel pomeriggio del sabato 21 luglio 2001”. Delle violenze alla Diaz, a parte uno sparuto gruppetto di agenti (soprattutto i capisquadra) che è stato possibile identificare, hanno risposto solo i massimi funzionari in comando a Genova in quei giorni.
La sentenza della Cassazione da un colpo al cerchio e un altro alla botte poiché, pur riconoscendo le responsabilità dei vertici della Polizia, distribuisce decine di prescrizioni e infligge pene molto blande. È significativo che sono stati dichiarati prescritti molti dei reati riguardanti gli atti falsi redatti dalla Polizia per motivare la perquisizione e la violenza contro gli occupanti della scuola. Ad esempio, il capo D (cioè la calunnia per la creazione di prove false atte a giustificare l’arresto dei 93 ragazzi che si trovavano alla Diaz) e il capo G (quindi i verbali della Polizia che denunciavano una forte resistenza da parte dei fermati). Sono caduti in prescrizione anche la stragrande parte degli episodi riguardanti le lesioni gravi provocate ai manifestanti (capo H) oltre alla vicenda della finta coltellata che avrebbe ricevuto l’agente Massimo Nucera del settimo nucleo mobile di Roma. Una vicenda bollata dai giudici supremi come un “episodio mai avvenuto, tassello invece di quella più ampia opera mistificatoria realizzata”. Ad aver pagato per la mattanza sono stati il comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini (3 anni e 3 mesi per falso ideologico in atto pubblico), il capo dell’anticrimine Francesco Gratteri e il vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi (a 4 anni di carcere per falso ideologico) ed infine il dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola, anche lui per la vicenda dei verbali falsi (3 anni e 8 mesi). Una serie di condanne per aver firmato, o per aver controllato ma non corretto, i verbali della perquisizione, nei quali veniva data una versione distorta della realtà al solo fine di “fornire, quanto meno nell’immediatezza, una patente di legittimità e di plausibilità ad una operazione di polizia giudiziaria svoltasi invece con modalità tali da concretare (…) i reati di lesioni personali anche gravi, in assenza di qualsivoglia causa di giustificazione”.
Grazie all’indulto del 2006, nessuno di loro è finito in carcere. Dopo 5 anni di interdizione dal servizio (terminata nel 2017), chi non era in età pensionabile è stato reintegrato nella Polizia di Stato.
Peggio si è verificato per le violenze alla caserma di Bolzaneto, luogo dove venivano fatti confluire i manifestanti una volta tratti in arresto. Solo 7 dei 45 imputati sono stati condannati in via definitiva poiché quasi tutti i reati erano già caduti in prescrizione (anche perché in Italia fino al 2017 non era previsto il reato di tortura) però, conclude la Corte di Cassazione, era impossibile che “all’interno della struttura potessero sfuggire a chicchessia le risonanze vocali (cioè gli ordini, i pianti, le grida, i lamenti, i cori), le risonanze sonore (cioè i transiti, le cadute, i colpi), le percezioni olfattive (cioè la puzza dell’urina, l’odore del gas urticante spruzzato, l’odore del vomito, del sudore e del sangue) e le tracce lasciate sui volti, sui corpi, sugli abiti, sugli sguardi, negli ansiti e nella voce delle vittime”.
Una conclusione quella degli ermellini che non rimanda al finto teorema del ‘non poteva non sapere’ ma porta il lettore a farsi due domande: perché nessun agente di Polizia si è opposto a quelle pratiche? Perché nessuno ha denunciato subito all’autorità giudiziaria ciò che stava accadendo?
Evidentemente, non siete Stato voi.

Foto © Ares Ferrari/Wikipedia

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