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impastato-peppino3Quattro carabinieri indagati per il depistaggio delle indagini su Peppino Impastato
di Salvo Vitale - 20 maggio 2014
In siciliano diciamo, “a scurdata”, quando intendiamo che tutto è stato dimenticato, quando nessuno ci pensava o ci sperava più. Ancor più suggestiva è l’espressione “a la squagghiata di l’acquazzina”, cioè quando si scioglie la brina, si scopre la verità nascosta e non c’è più nulla da fare. Sin dal primo momento e sino ad adesso la famiglia Impastato ha continuato a chiedere che si aprisse un’inchiesta sugli autori del depistaggio delle indagini sulla morte di Peppino, ma sinora, malgrado il minuzioso lavoro di una Commissione Parlamentare d’inchiesta che, nel 2002 accertò che il depistaggio c’era stato e aveva nomi e cognomi, nessun magistrato si è voluto avventurare su questo difficile terreno, principalmente a causa del tempo intercorso e, soprattutto, del muro impenetrabile contro cui si va a sbattere ogni volta che esponenti delle forze dell’ordine o delle istituzioni si trovano ad essere sotto tiro.

Ci avevano provato, qualche anno fa, i giudici Ingroia e Del Bene: era stata passata in rassegna la pista neofascista, con la ricostruzione dei personaggi locali che, negli anni 70 frequentavano l’eversione nera, ma nulla era emerso che potesse giustificarla, se si eccettua, come risulta dalla sentenza del procuratore De Francisci (1992) quanto dichiarato da Angelo Izzo, noto neofascista, il quale ha sostenuto di avere personalmente appreso da Pierluigi Concutelli che ad uccidere Peppino Impastato sarebbero estati elementi dell’estrema destra e, in particolare, un certo Miranda, detto “il Nano”. Concutelli, chiamato a deporre, ha smentito  tutto e nessuno si è più preoccupato di rintracciare Miranda per interrogarlo. Adesso, dopo l’abbandono di Ingroia, un altro giudice, Maria Pino, riapre l’indagine soffermandosi sull’operato di quattro carabinieri nel lontano maggio del 1978.

Subranni
Va detto che questi reati, dopo 36 anni, sono ormai in prescrizione ma, a quanto pare, uno degli indagati, il generale Subranni, avrebbe chiesto di rinunciare alla prescrizione, perché vuole essere assolto con formula piena. Chi è Subranni: un militare che ha ricoperto le più alte cariche dello stato, soprattutto quella di generale dei ROS. Negli anni di piombo è stato a Palermo ed è a conoscenza di una serie impressionante di misteri, da quelli della mancata subranni-antonio0perquisizione al covo di Riina, a quelli della mancata cattura di Provenzano, ai vari passaggi della trattativa stato-mafia, nel cui processo è uno dei principali imputati. Nel 1978 era comandante del Reparto operativo del gruppo Carabinieri di Palermo e, sulla scia dei suoi predecessori, Dalla Chiesa e il Colonnello Russo, aveva la fissazione del terrorismo rosso dovunque vedesse qualche momento di ribellione o di contestazione. Su questa linea d’indagine e operando una forzatura, cercò di far passare l’omicidio di Peppino come un attentato terroristico: naturalmente mancavano alcuni passaggi: come avrebbe potuto Peppino caricare il tritolo, innescare la miccia e saltare per aria, con quale contatto elettrico, e poi, perché?

Canale
Ci pensò un carabiniere ausiliario di Partinico, Carmelo Canale, a perquisire la casa in cui dormiva Peppino, da sua zia, alla stazione di Cinisi: trovò una lettera in cui Peppino esprimeva la sua delusione per il fallimento delle idee politiche rivoluzionarie, che si era verificato nel 1977 ed esprimeva la sua volontà di abbandonare la politica e la vita. Era una lettera d’addio, ma ben datata: cominciava: “Ci sono voluti nove mesi, tanti quanti ne occorrono per un normale parto, ma ormai la decisione è presa….è cominciata a febbraio…”: quella lettera risaliva quindi al novembre del 1977, mentre Peppino fu ucciso il 9 maggio del ’78. Canale e i suoi superiori non si fecero scrupolo di affidare alla stampa (Giornale di Sicilia 16 maggio 1978) un documento così delicato, facendo dire al giornalista che i pezzi riportati erano stati ricostruiti con l’aiuto dei compagni di Peppino, i quali invece non ne sapevano niente. Il verbale di tale perquisizione non porta la firma della proprietaria dell’immobile, Bartolotta Fara, zia di Peppino. Gli atti processuali parlano di “sequestro informale”. In tal senso la Commissione Antimafia scrive: «È provato che, dopo i “sequestri informali”, cioè senza il rispetto delle formalità di legge, di materiale documentario di proprietà di Giuseppe Impastato, sono stati posti in essere ulteriori accertamenti di cui agli atti processuali non v’è alcun riscontro.canale-carmelo La macroscopicità di questa violazione della legge processuale costituisce un’anomalia di intrinseca e indiscutibile gravità. Essa comporta la ideologica falsità degli atti descrittivi delle operazioni di perquisizione e sequestro nei domicili di Giuseppe Impastato, ove venne omesso qualsiasi riferimento a tale documentazione».
Ugualmente strano il mancato sequestro degli appunti autobiografici e della “seconda” lettera di Peppino, copia riveduta e corretta della prima, che pure, a suo tempo, chi scrive questa nota ha trovato facilmente, nello stesso posto in cui era stata sequestrata la prima lettera: forse perché in essa si reiterava l’intenzione di abbandonare la politica, ma non più la vita e sarebbe venuta così meno la pista del suicidio. Sul giornale “Cronaca Vera” comparve un articolo dal titolo “E’ saltato in aria da solo”, corredato dalla foto scattata a Peppino al momento del servizio militare, e quindi negli archivi dell’esercito e con un’altra foto scattata dai carabinieri subito dopo il ritrovamento dei resti. Roba riservata  

L’insistenza
Quando ormai, dopo il lavoro dei compagni, le indagini stavano assumendo una nuova direttiva, dopo la scoperta delle macchie di sangue nel casolare, Subranni, in un nuovo rapporto scritto il 31 maggio 1978, riproponeva l’idea dell’attentato Interrogato da Rocco Chinnici fu costretto ad ammettere di avere sbagliato, si giustificò dicendo di avere avuto informazioni sbagliate dai carabinieri di Cinisi. Significativa anche una improvvisa presenza del capitano D’Aleo, della caserma di Monreale, poi anche lui vittima di mafia, che di colpo scomparve dall’indagine: forse non condivideva i metodi di Subranni. Interpellato dalla Commissione Antimafia (1999) Subranni troverà da ridire anche sulla perizia del prof. Del Carpio, (da tempo morto), sostenendo di non averlo voluto accusare di falsa testimonianza, solo per magnanimità. Non si sa con quanta buona intenzione egli inserisce i “due mesi e mezzo di menate sul personale” scritti nella lettera di Peppino, in aggiunta ai “nove mesi” in cui egli “medita di abbandonare la politica e la vita” e non compresi tra di essi: in tal modo il periodo si allunga ad undici mesi e mezzo (febbraio-marzo) e diventa più vicino alla data della morte, rendendo più plausibile l’ipotesi del suicidio. Oggi Canale è diventato Generale, dopo essere stato indagato più volte per mafia, mentre Subranni, cerca di svincolarsi, al processo di Caltanissetta, che lo vede imputato, da tutti i suoi comportamenti equivoci e poco onorevoli da parte di chi avrebbe dovuto rappresentare l’autorità e la dignità dello stato. Secondo Agnese Borsellino, suo marito Paolo gli avrebbe confidato che Subranni era “punciutu”, era cioè di avere visto in lui “il vero volto della mafia”.

Travali e company
All’elenco mancano due nomi, uno dei quali è presumibilmente quello del maresciallo Alfonso Travali, che allora dirigeva la caserma di Cinisi: costui, nel rapporto del 30-5, scrive testualmente: «anche se si volesse insistere su un’ipotesi delittuosa, bisognerebbe comunque escludere che Giuseppe Impastato sia stato ucciso dalla mafia»: l’utilità di questa precisazione, del tutto inutile e non richiesta, può avere un senso se si tiene conto delle dichiarazioni del pentito Francesco Di Carlo, il quale testualmente afferma che «la stazione dei carabinieri di Cinisi non li disturbava (si riferisce ai mafiosi), facevano finta di niente perché ci avevano fatto parlare il colonnello Russo. Al colonnello Russo ci avevano parlato i Salvo e Tanino Badalamenti e si comportavano bene». Va anche detto che Badalamenti si era opposto all’eliminazione del colonnello Russo, decisa da Luciano Leggio e che Russo, saputo ciò, avrebbe  presumibilmente cercato di sdebitarsi. Anche il pentito Francesco Onorato, in una sua dichiarazione del 31 maggio 1997 afferma che «era risaputo che il Badalamenti avesse nelle mani i Carabinieri del territorio di sua pertinenza”. L’ultimo nome è quello di un carabinier allora in servizio a Cinisi, un certo Meli, che era cognato di Carmelo Canale, così come cognato di Canale era il maresciallo Antonio Lombardo, della caserma di Terrasini, morto in uno strano suicidio (1995), strano tanto quello del giudice Signorino (1992) che, in un primo momento diresse le indagini privilegiando la pista dell’attentato terroristico.

Che dire?
Oggi il figlio di Subranni, Ennio, è membro del ROC, il Reclutamento Operativo Centrale dei nostri servizi segreti, mentre la figlia Danila è stata la principale portavoce di Angelino Alfano, quando era ministro della Giustizia. Ed è proprio la giustizia quella che in Italia ha passi troppo lenti.
Che dire? Per avere il processo ci sono voluti 18 anni, proprio perché non si voleva processare l’operato di  coloro che avevano depistato le indagini. Dal 2002, anno di conclusione del processo, ad oggi sono passati altri 12 anni. Capi d’accusa e ipotesi investigative si basano su elementi sempre più deboli e assumono contorni lontani e da cui si rischia di uscire con proscioglimenti e con le solite assoluzioni utili solo a dare una patente di rispettabilità a gente che invece non sempre  la merita.

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