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scotti-vincenzo-web0di Lorenzo Baldo - 20 gennaio 2012
Palermo. “Sono convinto, e lo vado ripetendo da mesi, che il calvario non è finito, che la mafia colpirà ancora e colpirà ancora più in alto, tanto più in alto quanto più efficace diventerà l' azione dello Stato. Non tutti vogliono capirlo. C' è chi fa orecchie da mercante, chi ha la tentazione di sottovalutare il mio allarme, chi colpevolmente sussurra che la mia apprensione è soltanto allarmismo che nasconde voglia di potere.

Bene, a questi signori ho già detto che io non andrò più a Palermo a raccogliere insulti e monetine per loro e al loro posto. Nessuno può pensare, dinanzi alla guerra che bisogna scatenare contro la mafia, di lavarsi pilatescamente le mani. Sia ben chiaro, soltanto con un esecutivo forte, legittimato nel tempo e nei consensi può proseguire il lavoro già iniziato da me e da Martelli. E' una politica che va confermata e una legittimazione di quella politica passa attraverso la riconferma di entrambi”. Era il 21 giugno 1992 quando Giuseppe D’Avanzo pubblicava sul quotidiano la Repubblica le dichiarazioni dell’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti. A distanza di quasi vent’anni il pm Nino Di Matteo ha riletto quei passaggi durante l’odierna audizione dello stesso Scotti al processo Mori-Obinu. L’articolo in questione fa parte di una serie di documenti (relazioni ufficiali sul 41bis, articoli di stampa ecc.) per i quali la procura di Palermo ha chiesto l’acquisizione alla Corte della IV sezione penale presieduta da Mario Fontana. Senza alcun tentennamento l’ex ministro 79enne ha ribadito quanto precedentemente dichiarato ai pm nell’interrogatorio del 5 dicembre scorso. A partire dal suo operato al Viminale, fino alla sua improvvisa uscita dalle scene politiche. Di Matteo ha ripercorso i punti salienti delle dichiarazioni dell’esponente politico della DC rese il 20 marzo 1992 davanti alle Commissioni Affari Costituzionali e Interni della Camera dei Deputati. “Nascondere ai cittadini che siamo di fronte a un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata – diceva senza mezzi termini Scotti prima delle stragi di Falcone e Borsellino – è un errore gravissimo. Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata. Io me ne assumo tutta la responsabilità. Se qualcuno ritiene che questo non sia vero sono pronto alle dimissioni ma per questa ragione, ma non cedo il passo su questo terreno, ho detto che l’allarme sociale è altissimo e la gente deve sapere queste cose. Siamo un Paese di misteri e io non intendo gestire il ministero degli Interni con una condizione di silenzio o di misteri e senza mettere su carta le cose che si fanno”. Il racconto dell’ex capo del Viminale ha toccato i nervi scoperti di un sistema di potere che non intende processare se stesso. Ecco che le lancette dell’orologio sono tornate indietro alle settimane successive la strage di Capaci (prima di quella di via D’Amelio) quando Scotti e l’allora ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, avevano iniziato a lavorare sul decreto legge relativo al carcere duro per i mafiosi, il famoso “41 bis”. “Quando accelerai per l’approvazione del decreto – ha dichiarato Scotti – fui isolato politicamente”. Solamente nel mese di agosto del ’92, dopo la strage di via D’Amelio, quel decreto sarebbe stato approvato definitivamente. L’isolamento politico concluso con la sua destituzione da ministro dell’Interno è stato ulteriormente analizzato dal pubblico ministero nelle domande successive. Del resto nell’articolo di Repubblica del 21 giugno del ’92 l’On. Scotti era già stato alquanto esplicito. “Nel mio stesso partito, come nel partito di Martelli – aveva detto a D’Avanzo – , c' è chi sarebbe molto contento che entrambi ce ne tornassimo a casa. Ho l' impressione sempre più acuta che prima ci leviamo dai piedi, più gente sarà soddisfatta. E soddisfatta certamente sarà la mafia quando il nuovo governo invece di sviluppare con coerenza un piano operativo, già delineato, ricomincerà daccapo come se nulla fosse in questi mesi, in questi anni, accaduto”. Per quale ragione era tanto urgente sostituire Vincenzo Scotti con Nicola Mancino? Il suo grido di allarme nei confronti dei rischi di attentati era stato parificato ad una “patacca” perfino dall’allora presidente del Consiglio Andreotti. E allo stesso modo le sue intenzioni operative in merito alla lotta alla mafia non erano state gradite agli uomini delle istituzioni chi si apprestavano a “trattare” con Cosa Nostra. Alle domande della difesa se avesse mai saputo di contatti tra il Ros e Vito Ciancimino l’ex ministro dell’Interno ha risposto negativamente. Allo stesso modo ha risposto quando gli è stato chiesto se era stato messo al corrente dell’incontro tra Giuseppe De Donno e Liliana Ferraro. Nel rammentare come Nicola Mancino avesse fatto parte della “corrente di sinistra” della Democrazia Cristiana lo stesso Scotti ha involontariamente lanciato un collegamento con  le dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca. “Quando già il centro sinistra iniziava a fare il nome di Berlusconi e Dell'Utri relativamente alle stragi – aveva dichiarato Brusca nell’udienza del 18 maggio 2011 al processo Mori-Obinu– , io dissi a Mangano che la sinistra sapeva. Non che fosse mandante delle stragi, ma demmo mandato a Mangano di rappresentare a Berlusconi che la sinistra sapeva in modo che potesse usare questa informazione come arma politica contro gli avversari nel caso lo accusassero di collusioni mafiose”. Di fatto anni addietro lo stesso Brusca aveva spiegato che con il termine “sinistra” aveva inteso definire la corrente di sinistra della Democrazia Cristiana. Lo stesso Nicola Mancino verrà ascoltato nelle prossime settimane insieme al generale Giampaolo Ganzer, all’ex premier Giuliano Amato e ad altri testimoni eccellenti.

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