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Il 21 settembre di 33 anni fa, nel 1990, venne ucciso il magistrato Rosario Livatino, dichiarato nel 2021 Beato dalla Chiesa Cattolica.
Un magistrato giovane, sui generis, che ha saputo accomunare il difficile lavoro del giudice con altissimi valori morali e umani. Entrato in magistratura a 23 anni Livatino prese servizio prima come sostituto procuratore al Tribunale di Caltanissetta e in seguito ad Agrigento.
Le sue indagini arrivarono a toccare i ‘fili scoperti’ del sistema della ‘Tangentopoli Siciliana’: una rete di corruzione che andava a braccetto con una certa politica.
Livatino fu uno dei primi ad interrogare alti dirigenti dello Stato: fra cui, nel 1984, il più volte ministro democristiano Calogero Mannino, come persona informata sui fatti.
Il giudice si occupò anche della temibile ‘Stidda’, una fazione separatista di Cosa nostra che decise di staccarsi dell’organizzazione per rivendicare la propria autonomia. Fu proprio la Stidda che decise l’assassinio del giudice. Il 21 settembre 1990 Rosario Livatino stava viaggiando con la sua Ford Distesa color amaranto sulla strada che da Caniccattì porta a Gela. Verso il kilometro 10 della strada statale 640 che da Canicattì porta ad Agrigento la macchina del magistrato venne speronata dalla vettura su cui vi erano quattro killer. Livatino cercò di mettersi in salvo finendo nella scarpata ma i killer lo trovarono: “Perché? Cosa ho fatto?” Disse il giudice, ma il suo assassino, Gaetano Puzzangaro non rispose e sparò.
Oggi, proprio in quel luogo si trova una stele, attorniata dalle erbacce e isolata rispetto al nuovo tracciato della Caltanissetta-Agrigento.
Uno dei primi a recarsi sul posto fu il giudice Paolo Borsellino che si occupò del caso dell’omicidio Livatino e si scoprì in seguito che il 20 luglio 1992 doveva andare a interrogare un pentito, Gioacchino Schembri, in Germania. Cosa che non avvenne mai in quanto la sua vita gli venne strappata il 19 luglio 1992, nella strage di Via D’Amelio. Gli investigatori riuscirono a rintracciare ed arrestare gli assassini grazie all’aiuto di un prezioso testimone Pietro Ivano Nava, un imprenditore lombardo che assistette all’omicidio.
In seguito al processo vennero condannati all'ergastolo in qualità di mandanti Antonio Gallea, Salvatore Perla e Giuseppe Montanti; invece in quanto killer materiali Paolo Amico, Domenico Pace, Gaetano Puzzangaro, Salvatore Calafato e Giuseppe Avarello. In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino, beatificato il 9 maggio 2021, è stato ammazzato perché "perseguiva le cosche mafiose impedendone l'attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l'espansione della mafia".
Puzzangaro fu l’unico a pentirsi tanto che diede un prezioso contributo nel processo di beatificazione del giudice Livatino.

Fu solo Stidda?
Fino ad oggi le sentenze ci dicono che proprio l'organizzazione criminale della Stidda ha ideato e proceduto all'eliminazione di quel giudice "scomodo". Ma dietro a certi delitti eccellenti, si sa, spesso si annida quella convergenza di interessi che è proprio del Sistema criminale.
Livatino insieme a un altro pm della Procura di Agrigento, nel 1986, collaborò attivamente con Falcone e Borsellino e consegnò a loro le trascrizioni di una microspia piazzata nella latteria di Paul Violi, a Montereale, che dieci anni prima del pentimento di Tommaso Buscetta avevano svelato l'intero organigramma di Cosa nostra ad Agrigento. Non solo. Venivano rivelate le ramificazioni internazionali, i collegamenti strettissimi con la ’Ndrangheta per il traffico di droga (che avviene ancora oggi, ndr). A questo si aggiunge il dato di collegamenti diretti tra i boss agrigentini e i palazzi del potere di Roma per rapporti di altissimo livello con la politica. Gli elementi fin qui descritti, contenuti nell’inchiesta dell’inviata speciale del Tg1 Maria Grazia Mazzola, spingono a formulare interrogativi nuovi sul perché venne ucciso Rosario Livatino.
Non è un elemento di secondo piano, dunque, che il giorno dell'attentato avvenuto lungo la provinciale tra Agrigento e Caltanissetta, Paolo Borsellino fu tra i primi a recarsi sul posto.
Dietro il movente si affacciano nuovi scenari. E tra essi anche il traffico internazionale non solo di droga ma anche di armi. Perché lo Special Tg1 racconta anche di un incontro tra Livatino ed il magistrato Carlo Palermo, allora impegnato a Trento, che al tempo investigava su certi traffici.
Palermo nel libro "La Bestia" scrive che "numerose indagini hanno riguardato, nell’agrigentino, la stidda locale e quel Salvatore Puzzangaro in cui si erano imbattuti prima Rosario Livatino, poi Giuliano Guazzelli (ucciso nell’aprile del 1992, poco dopo Salvo Lima), e Paolo Borsellino, ma anche quel ‘buco nero’ costituito da traffici di armamenti e rapporti bancari con l’Iraq incentrati a Liegi e Bruxelles, ma collegati con la Tunisia".
La Mazzola ha ricostruito diversi passaggi anche grazie all'intervista di un collega di Livatino che riferisce degli scambi informativi tra il pool antimafia di Palermo e la procura di Agrigento, allora retta da Elio Spallitta.

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