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È il primo magistrato beato nella storia della Chiesa cattolica

"Dinanzi all'Eterno non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili", aveva affermato in una occasione il magistrato Rosario Livatino, parole che descrivono una vita.

Così ripensando alla figura del magistrato siciliano, Papa Francesco aveva ribadito che resta un esempio "non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l'attualità delle sue riflessioni".

In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino, beatificato il 9 maggio 2021, è stato ammazzato perché "perseguiva le cosche mafiose impedendone l'attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l'espansione della mafia".

Un martire della giustizia. Magistrato probo, coraggioso, spinto dai grandi valori trasmessi dalla famiglia, ligio alla rettitudine e sorretto da una fede profondissima.

Rosario Livatino - ucciso 32 anni fa dalla mafia nelle campagne di Agrigento, definito giudice 'ragazzino' per la sua giovane età - aveva iniziato la sua carriera in magistratura a solo 23 anni: prima tappa Caltanissetta, poi Agrigento.

In poco più di un decennio aveva combattuto le varie consorterie criminali della provincia, concentrando il suo impegno verso la nascente e temibilissima 'Stidda', un gruppo attivo in quel lembo di terra che si affaccia sul canale di Sicilia, da Agrigento a Gela. Era stata la 'Stidda' a decidere di eliminarlo quel 21 settembre del 1990. Come tutte le mattine, a bordo della sua vecchia Ford Fiesta color amaranto, senza alcun agente di scorta a difenderlo, Livatino stava raggiungendo Agrigento da Canicattì lungo la strada statale 640. Al chilometro 10 la macchina era stata speronata dall'auto del commando formato da quattro killer. Il magistrato aveva cercato riparo lanciandosi nella scarpata. Una fuga disperata: i sicari alla fine lo avevano trovato e gli spararono senza pietà.

Oggi, proprio in quel luogo si trova una stele, attorniata dalle erbacce e isolata rispetto al nuovo tracciato della Caltanissetta-Agrigento.

Dell'omicidio era stato testimone Pietro Ivano Nava, un imprenditore lombardo. Le sue dichiarazioni, affidate ai magistrati che indagarono sulla morte del giudice, si erano rivelate utilissime per chiudere il cerchio attorno ai killer, poi arrestati. I condannati all'ergastolo come mandanti sono stati Antonio Gallea, Salvatore Perla e Giuseppe Montanti, in qualità di killer Paolo Amico, Domenico Pace, Gaetano Puzzangaro, Salvatore Calafato e Gianmarco Avarello.

Uno di essi, Gaetano Puzzangaro, 'picciotto' della famiglia di Palma di Montechiaro, dopo essersi pentito e convertito, in questi anni ha dato un contributo importante alla causa di beatificazione del magistrato Livatino. Oggi sempre nella Chiesa San Domenico sarà celebrata una funzione religiosa. Poi, un omaggio alla stele fatta erigere dai genitori in ricordo del loro unico figlio.

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