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guarnotta-leonardo-c-s f-2di Leonardo Guarnotta
Penso che la solitudine sia una condizione connaturata al magistrato nel momento in cui adotta le sue decisioni: ha sopra di sé soltanto la legge e anche la propria coscienza. Il provvedimento viene quindi emesso secondo scienza e coscienza. Se poi parliamo di un’altra solitudine  bisogna far presente che non sempre il potere politico, forse sarebbe opportuno dire quasi mai, sembra essersi veramente reso conto di quello che sia amministrare la giustizia e decidere della sorte delle persone. Nel settore penale sono in gioco la dignità e il decoro, la libertà di una persona; nel settore civile sono in ballo gli interessi economici e la proprietà, le imprese e le ditte dei soggetti che vengono indagati. Quando ho iniziato la mia attività giudiziaria, mi riferisco  alla fine degli anni Settanta così come ai primi anni Ottanta, anche da parte dei rappresentanti delle istituzioni si diceva che la mafia non esistesse, che fosse un’invenzione giornalistica. Tutto questo avveniva sebbene già nel lontano 1973, il 30 marzo, in un verbale di dichiarazioni rese da Leonardo Vitale, il cosiddetto pentito, era ben chiara la descrizione dell’organigramma delle famiglie mafiose palermitane. Quello sarebbe stato il momento particolare in cui forse era necessario intervenire per dare un sostegno alla magistratura che era impegnata in un compito così difficile. Ma fino ai primi anni Ottanta non avvenne nulla di tutto ciò. Poi è iniziata l’esperienza particolare del pool antimafia che, grazie a Rocco Chinnici prima, a Paolo, Giovanni e Antonino Caponnetto dopo, ha dato inizio alla prima azione di contrasto efficace nei confronti di Cosa Nostra. E’ stato già detto da qualcuno che la magistratura non ha bisogno di consensi ed è vero. In quel periodo venne iniziata una azione di contrasto perché si credeva nel lavoro che si faceva, si pensava anche che ci fosse da parte del potere politico e del governo, un sostegno a quella attività. Che in quel momento era tanto importante per noi, perché la tracotanza e la violenza di Cosa Nostra (come abbiamo saputo chiamarsi la mafia da Tommaso Buscetta) era ormai divenuta intollerabile. Da parte di quello sparuto drappello di magistrati c’era quindi la volontà di far sì che i nostri giovani, che sono il nostro futuro, potessero vivere in una società migliore di quella in cui abbiamo vissuto noi, e forse continuiamo a vivere noi, perché potessero sentire la dignità di essere cittadini e non sudditi, perché potessero ottenere di diritto quello che invece si è costretti a chiedere per favore al potente politico o mafioso del momento. Si pensava davvero che in quel momento particolare ci fosse un sostegno da parte del governo, da parte della politica. Ma quello che abbiamo saputo dopo, i fatti accaduti nei primi anni Novanta, hanno dimostrato che forse all’epoca vi erano due Stati: uno Stato in netta minoranza, che guardava con soddisfazione a quel lavoro che stavano facendo Giovanni e Paolo, e un altro Stato, in grande maggioranza, che forse non era altrettanto benevole nei nostri confronti. Si tratta di una verità che è volata alta sulle nostre teste e che ora si sta cercando per poter rendere giustizia a quello che è avvenuto alcuni anni addietro. La solitudine, è vero, c’è, ed è naturale per noi che sia così, è propria di tutti noi… C’è poi un’altra solitudine che è quella in cui versa la magistratura nei confronti dell’autorità politica.

Senso del dovere e volontà politica
Per rifarmi a quello che è stato detto poco fa sulla prescrizione, vorrei ricordare che per quanto riguarda la fase dibattimentale esiste una norma del Codice di Procedura Penale: tra l’udienza di prima comparizione e quelle successive devono intercorrere non più di undici giorni, ora se questa norma potesse essere applicata (poi vediamo perché non lo è) è chiaro che un processo di media complessità potrebbe benissimo essere finito in due, tre mesi. Ma perché questo non si può fare? Perché noi non abbiamo il personale, sia di magistratura, sia di personale amministrativo, in grado di poter reggere questo ritmo. Il compito di fornire alla magistratura le risorse umane e materiali spetta al Guardasigilli in base a una norma di rango generale:  l’articolo 110 della Carta Costituzionale, secondo il quale, a parte le prerogative del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organizzazione interna spetta al Guardasigilli. Noi siamo in una situazione particolare, il nostro Tribunale, che dovrebbe avere un organico di 419 unità di personale amministrativo ne ha soltanto 340, perché quelli che vanno in pensione non vengono rimpiazzati. Vanno in pensione ovviamente quelli più anziani e più esperti, ma noi non siamo in grado di poter affiancare a quel funzionario, che sappiamo andrà tra un anno, un altro funzionario a cui insegnare il mestiere, perché non abbiamo il personale per farlo. Quindi è chiaro che appena va via un funzionario esperto in quella materia viene sostituito da un altro che nel frattempo ha fatto tutto un altro lavoro, quindi occorre che stia qualche mese prima che possa impratichirsi della materia, della funzione a cui è dedicato. È chiaro che la volontà politica è importante affinchè i problemi della giustizia possano, seppure in parte, essere risolti. Io sto per lasciare la magistratura dopo quasi cinquant’anni e in tutti questi anni c’è stata, forse ora un po’ meno, una continua “processione” di Ministri della Giustizia che sono venuti qui a Palermo per rassicurarci… Quella che da Roma porta a Palermo è una strada che all’andata è piena di promesse e di buone intenzioni. Al ritorno, però, questa strada non ha più promesse né buone intenzioni, è una strada lastricata di tutti quei disagi che noi abbiamo, perché arrivati a Roma tutto viene dimenticato. Eppure è importante pensare che le lotte a tutte le mafie: quella siciliana, quella calabrese, quella campana e quella pugliese, vengono combattute in tutte quelle regioni, ma la guerra, l’esito finale della guerra avverrà a Roma, perché è a Roma che noi dobbiamo avere le leggi, il supporto e le riforme necessarie per andare avanti. Dico ai giovani che sono presenti: abbiate fiducia nella magistratura, noi abbiamo tutti i difetti del mondo, ma la stragrande maggioranza di noi lavora, la stragrande maggioranza di noi considera questa nostra attività come una missione, la stragrande maggioranza di noi sente il peso della responsabilità di poter giudicare quelli che si rivolgono alla giustizia. Negli anni in cui sono stato Presidente di questo Tribunale quando è venuto un Avvocato, o qualche parte si è lamentata perché una causa non viene decisa in tempi ragionevoli (perché un’ordinanza non è stata sciolta dopo tot tempo), io mi sono vergognato a nome dei colleghi, a nome del Tribunale, in quanto cose del genere non dovrebbero succedere. Da parte mia faccio il possibile per ovviare a questo, ma la volontà di ciascuno di noi non è sufficiente, occorre che ci sia la volontà politica.

*L’intervento del dott. Guarnotta è scaturito da una domanda sulla solitudine dei magistrati formulata da una studentessa di giurisprudenza in occasione della manifestazione “Porte aperte in Tribunale” realizzata lo scorso 17 gennaio nell'ambito della “Giornata per la Giustizia

(trascrizione a cura di Cristina Pinna)

Foto © S. F.

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