di Pippo Giordano - 26 febbraio 2013
Alla fine di giugno del '92 Paolo Borsellino, durante un dialogo di routine con i due PM di Marsala Alessandra Camassa e Massimo Russo, si alzò dalla sedia e, stendendosi sul divano, scoppiò a piangere dicendo: “... Non posso credere che un amico mi abbia tradito”. L'episodio narrato dalla Camassa è sconvolgente e rappresenta la presa d'atto di un Uomo che crede nel valore dell'amicizia, che crede nei valori del giuramento di fedeltà allo Stato. E quando scopre d'essere stato tradito da chi, come lui, si è cibato dal medesimo piatto, di certo si è sentito cadere il mondo addosso. Allora io chiudo gli occhi e per un attimo cerco di immaginare lo sgomento che aleggiava nel suo ufficio e penso che, se per assurdo fossi stato presente, gli avrei esternato con le mie lacrime tutta la mia solidarietà e la mia rabbia su quanto era venuto a conoscenza: solidarietà partecipata con animo sincero perché anch'io ho subito non uno ma diversi tradimenti da parte di chi lavorava insieme a me. E posso immaginare la cocente delusione di Paolo Borsellino quando apprese il nome del suo “amico”: posso immaginare la solitudine, l'amarezza, la sconfitta di un sogno, di un ideale che magari aveva condiviso col traditore. Giova evidenziare che chi non ha subito un tradimento da parte di un “amico” non può capire: non potrà mai capire la ferita che rimane aperta e che nemmeno il tempo riesce a rimarginare.
La rivelazione della Camassa mi ha fatto riflettere consentendomi di percorrere il percorso investigativo, sia prima che dopo la strage di via D'Amelio, giungendo a conclusioni intime circa il probabile traditore di Paolo Borsellino. “...Non posso credere che un amico mi abbia tradito” - disse - il dottor Borsellino alla Camassa e Russo e quindi appare verosimile che il traditore debba essere ricercato nella schiera di quegli “amici”. Rimane, tuttavia, la consapevolezza che nei fatti di mafia la cautela è d'obbligo. Io, nel mio intimo posso fare solo valutazioni, ma rimangono pur sempre congetture prive di riscontri, anche se alcuni nomi aleggiano nella mia mente. D'altronde, nelle aule dei Tribunali, occorrono prove per istruire un processo, non sono ammessi teoremi e per farlo comprendere, cito a mo di paragone un episodio. Insieme a Giovanni Falcone, interrogai un uomo d'onore di Cosa nostra e questi fece il nome di un poliziotto “traditore” a libro paga della mafia: nell'occasione ci fornì fatti e circostanze del tradimento che, ahimè, non riuscimmo poi a concretizzare in prove per condurre questo poliziotto innanzi al Tribunale. Quindi, talvolta, per un investigatore conoscere la verità e non poterla sostenere per mancanza di elementi di fatto è una sconfitta colma d'amarezza. Ma questa sconfitta ha un nome e si chiama “Garanzia” verso i Diritti dell'Uomo: ed è giusto che sia cosi!
Tratto da: 19luglio1992.com