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nangano flamiadi Paolo Borrometi
Il fresco profumo della libertà, la primavera della vera antimafia, passa per la denuncia di chi vuole rompere il muro dell’omertà e dell’isolamento, facendo mancare il terreno sotto i piedi alle mafie. E quando queste denunce sono accompagnate dal coraggio di imprenditori “normali”, segnano un momento storico e di cambiamento che, in una terra di simboli come la Sicilia, merita di essere esaltato e sostenuto dallo Stato. Sono una cinquantina, infatti, le estorsioni mafiose documentate, ventidue gli arresti, e trentasei le denunce di imprenditori palermitani.

Questi i numeri dell’operazione “Reset 2”, condotta ieri dai carabinieri di Palermo, che ha permesso di infliggere un durissimo colpo a capi e gregari dello storico mandamento mafioso di Bagheria, per di più in un territorio feudo dei corleonesi, dove iniziò la sua latitanza Provenzano, e ciò grazie alla dettagliata ricostruzione dei “trentasei” che hanno trovato il coraggio, dopo decenni di silenzio, di ribellarsi al giogo del pizzo.

Le pressioni del pizzo documentate dalle indagini, seppure concentrate sul settore edilizio, non risparmiavano nessuna attività economica, dai negozi di mobili e di abbigliamento, alle attività all’ingrosso di frutta e di pesce, ai bar, alle sale giochi, fino ai centri scommesse. Tutto ciò dimostra come le estorsioni siano una pratica mai in disuso delle mafie, così diffusa (soprattutto nel mezzogiorno, ma con importanti esempi persino nella Capitale) da limitare l’attività imprenditoriale e la libertà personale.

Eppure – come bene sottolinea il Presidente della Fai e storico padre dell’Antiracket nata venticinque anni fa, Tano Grasso – “il problema sono ancora oggi le sottovalutazioni e le minimizzazioni”. Proprio così, le sottovalutazioni che forniscono l’humus alla criminalità organizzata, creando le cosiddette “zone grigie”, dove settori dello stato collusi e la cosiddetta antimafia di facciata, lucrano grazie ad intrecci che scopriamo quotidianamente.
Ci sono realtà, nella Sicilia del ventunesimo secolo, come Catania o Vittoria (Ragusa), in Campania, in Calabria ma anche a Roma, dove gli imprenditori hanno smesso di denunciare, facendo tornare indietro di lustri le lancette degli orologi e regalando terreno fertile alle mafie. Il pizzo è la peggiore delle tasse e chi vi si assoggetta lo paga anche con la perdita della dignità.

I trentasei imprenditori, uomini e donne, rappresentano la risposta migliore della vera società civile. Quella società civile che troppo spesso ha abdicato al proprio ruolo e che oggi sceglie di non starci più al puzzo dell’illegalità. E’ questa la Sicilia, che (una volta tanto) va raccontata e sostenuta. Denunciare si può e si deve perchè innanzitutto conviene. Perché sottrarsi alla morsa della criminalità significa costruire sviluppo per la propria azienda, per la propria famiglia e per l’intera collettività.

La società che si ribella, che si unisce per mandare in galera i mafiosi, è una società che riesce a reagire e dimostrare superiorità. Quella società che fa dimenticare (almeno per un giorno) le tante polemiche di una Palermo sconvolta dal “caso Saguto” ed offre nuovi punti di riferimento per la lotta alle mafie.

Si, proprio la lotta alle mafie in cui credevano fortemente Giovanni Falcone, Paolo Borsellino ma anche Libero Grassi e tanti altri che oggi, forse, ha trovato delle vere e solide gambe su cui fare camminare le loro idee. Anche le mafie possono andare in crisi.

Tratto da: articolo21.org

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