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Gli avvocati Folli e Di Benedetto chiedono l'assoluzione

Nel processo trattativa vi sono “forzature interpretative ed anomalie processuali che si sono sviluppate sin dall'inizio del processo, in virtù della risonanza mediatica che il processo stesso ha avuto e che, purtroppo continua ad avere, mentre vi accingete ad entrare in camera di consiglio. Una risonanza mediatica cerca di trasformare in verità assoluta quanto scritto in una sentenza che è ancora sub iudice”.
E' contro la stampa ed i recenti programmi di approfondimento che si sono occupati degli anni delle stragi che Giovanni Di Benedetto, legale assieme a Federica Folli del boss Antonino Cinà (condannato in primo grado a 12 anni), ha puntato l'indice senza mezzi termini nell'arringa.
Una stampa che sarebbe rea di voler minare la serenità della Corte d'Assise d'Appello, presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania) semplicemente perché nei giorni della memoria della strage di Capaci ha ricordato una serie di fatti e misteri che ancora oggi non sono totalmente chiariti. Ovviamente sono stati citati gli esiti dei processi Mori-Obinu (mancato blitz a Mezzojuso), Mori-De Caprio (mancata perquisizione del Covo di Riina dopo l'arresto) e Mannino (processo in abbreviato), chiedendo in maniera diretta alla corte di “allineare” anche l'esito di questo processo a quelle sentenze.
Eppure vanno ricordati alcuni aspetti che, al di là degli esiti, non sono di secondo piano come i giudizi comunque pesanti sull'operato del Ros o il fatto che Mannino è stato assolto per “non aver commesso il fatto” con riferimento all'articolo 530 comma secondo, la vecchia insufficienza di prove e che viene applicata quando la prova del reato “manca, è insufficiente o è contraddittoria”. Ciò significa che il fatto esiste ed è tutt'altro che un'invenzione dell'accusa.
Nelle motivazioni dell'assoluzione del generale Mori e del colonnello Obinu, invece, pur non ritenendo provato un accordo tra i Ros e il capomafia, parlano di "aspetti opachi".
Opacità che sono state affrontate nel corso del processo di primo grado. Ed è facile pensare che alle prossime udienze le difese dei carabinieri torneranno in maniera ancora più forte sui punti.
I due legali dell'ex medico di Totò Riina hanno chiesto alla Corte d'appello di riformare la sentenza di primo grado e di assolvere Cinà “perché il fatto non sussiste” o "per non aver commesso il fatto non commesso" o ancora “perché il fatto non costituisce reato”.
Secondo l'impianto accusatorio, così come scritto nella memoria della Procura di Palermo, depositata a novembre 2012 nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa, i boss mafiosi Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e proprio il “postino” del papello Antonino Cinà, sono “gli autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia ad un Corpo Politico dello Stato, in questo caso il Governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima”.
“Un'invenzione”, secondo i legali, quella di inserire il delitto Lima, per evitare che il processo fosse celebrato in altra sede come Roma o Caltanissetta. “E' già qui l'anomalia - hanno detto - Hanno riesumato questa connessione con Bernardo Provenzano, che per l'omicidio Lima, era rimasto fuori. Con l'assunto che dove va Riina c'è anche Provenzano”.
Successivamente, così come avevano fatto in primo grado, i legali sono tornati sulla tanto discussa contestazione del reato. Quell'articolo 338 cpp (attentato a corpo politico) che è stato riconosciuto dai giudici di primo grado, addirittura criticando quella sentenza della Corte di Cassazione del 2 settembre 2005 in cui, con riferimento all’articolo 338, viene sancito che: “Per corpi politici vengono intesi quegli organismi che svolgono una funzione politica, come il Parlamento, il Governo e le Assemblee Regionali, purchè il fatto se configurabile non realizzi l’ipotesi del reato di cui all’art. 289, che sanziona invece la condotta quando essa sia impeditiva e non soltanto turbativa dell’attività del corpo politico minacciato”.
Una sentenza che era stata recepita dai giudici di primo grado, ma quell'assunto, per Di Benedetto “fu un ragionamento forzato ed inventato per colmare imprecisioni e lacune delle richieste del pm”.
Quindi si è puntato l'indice anche contro il decreto in cui si era disposto il giudizio del Gup Morosini, per poi continuare fino al dichiarato dei collaboratori di giustizia.
Come nel processo di primo grado la difesa del medico-boss (in carcere sta scontando un ergastolo, ndr), che dopo l'arresto di Provenzano era membro con Nino Rotolo e Francesco Bonura di quella triade che dai mandamenti di Pagliarelli, dell’Uditore e di San Lorenzo guidava Cosa nostra, si è incentrata in particolare sulle dichiarazioni di Totò Cancemi, Giovanni Brusca, Nino Giuffré, Rosario Naimo, Pino Lipari, Di Giacomo e Carmelo D'Amico.
E se quest'ultimi in particolare vengono tacciati di aver detto assolute fantasie, per quel che avrebbero raccolto sulle responsabilità di Cinà nella vicenda della consegna del papello, ai primi viene contestato soprattutto la mancata immediatezza con cui furono avanzate determinate accuse.
“C'è un'erronea disamina in punta di fatto - ha detto la Folli - Cinà non è mai stato indagato in relazione a tutte le indagini svolte negli ultimi 30 anni dalle Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze che, parallelamente, in celebrazione ai processi su mandanti ed esecutori delle stragi miravano a verificare gli altri responsabili, come esempio mandanti occulti a titolo di concorso. Cinà (la cui posizione è stata archiviata in tal senso lo scorso febbraio, ndr) è stato sempre estraneo”.
Quindi ha manifestato alla Corte “lo stupore nel sentire la Procura generale durante la requisitoria in cui ha parlato di pudore istituzionale dei contradizioni di giustizia per giustificare il ritardo e le contraddizione interne rispetto alle dichiarazioni dei collaboranti. Questa è spudoratezza”. Ed è da questo assunto che ha passato in rassegna le dichiarazioni dei pentiti.
Tutte dichiarazioni “tardive” ed “inattendibili”. “Cinà non viene indicato come colui che avrebbe avuto un ruolo” ha detto la Folli parlando del dichiarato di Brusca, Cancemi e Giuffré. “Loro di certe cose parlano in maniera generica e solo dopo tanto tempo".
Di Cinà parla anche Vito Ciancimino nei primi interrogatori dove lo definisce come interlocutore a cui avrebbe raccontato del colloquio con i carabinieri. “Da quello che dice Ciancimino padre, però - ha detto la Folli - l'interlocutore mostrò più meraviglia che interesse a sapere cosa volessero. Ed anzi gli disse di aggiustarsi prima le sue cose. Quanto detto da Ciancimino si sovrappone con quanto detto da Cinà nelle dichiarazioni spontanee. Ed è verosimile che Ciancimino, scaltro ed opportunista, avesse l'interesse di mantenere il proprio tornaconto personale, bluffando anche con i carabinieri”.
Per quanto riguarda gli approfondimenti del dibattimento d'appello sulla detenzione del collaboratore di giustizia catanese Giuseppe Di Giacomo, con la testimonianza dell'ex direttrice del carcere di Tolmezzo, Silvia Della Branca, la Folli ha ricordato il dato per cui “c'era una postazione di agenti nel corridoio, ricordo che c'erano una scrivania e una sedia, non proprio un box, di fronte alle celle. Di giorno c'erano sempre degli agenti, di notte però non so se il posto di servizio fosse occupato. Le disposizioni prevedevano che il posto fosse presidiato 24 ore al giorno ma in relazione alla disponibilità di personale per quel periodo. E ricordo che la notte c'erano meno unità”.
Al contempo però non ha ricordato la risposta successiva in cui, in maniera chiara, asseriva di "non poter escludere che tra Cinà e Di Giacomo non ci sia stata mai alcuna comunicazione. Che possano avere avuto delle conversazioni fraudolente, beffando il personale di controllo, non lo posso escludere in maniera assoluta”. Alla prossima data del processo, il 28 giugno, sarà la volta della difesa di Mario Mori.

Foto originali © Imagoeconomica

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