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di Pietro Orsatti (su Left 3,  23 gennaio 2009)
Parla il fratello del magistrato assassinato.

Rimane l’ombra dei servizi e affiorano nuovi elementi e un incontro fra il giudice e l’attuale vicepresidente del Csm.
Che non ricorda.
Intervista a Salvatore Borsellino

C’è un pezzo della nostra storia, un pezzo grande, un enorme buco nero, che rimane tuttora irrisolto. È la strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992 dove persero la vita il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Oggi a far emergere nuovi dettagli sulla vicenda sono le dichiarazioni, in alcuni punti discordanti, di Massimo Ciancimino, figlio di Vito (l’ex sindaco di Palermo pluriinquisito e condannato), e quelle di un killer condannato a vari ergastoli, Gaspare Spatuzza, che si autoaccusa di aver partecipato con un ruolo marginale alla strage. Su questa vicenda sono già stati portati a sentenza definitiva ben due processi. Ma, se non per quanto riguarda il ruolo di alcuni “gregari”, non si conosce ancora il nome e il volto di chi ha eseguito materialmente la strage, di chi ha premuto il pulsante del radiocomando che ha fatto esplodere la 126 carica di esplosivo militare posta davanti al portone dell’anziana madre di Paolo Borsellino. E soprattutto non hanno ancora un nome i mandanti occulti. «Per scegliere quel posto, via D’Amelio, ci sarà stato ben un motivo - racconta Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso - perché Paolo sarebbe stato facilissimo ucciderlo a casa sua, a Villa Grazia. Se passi dall’autostrada vicino al villino dove viveva vedi benissimo le sue finestre. Ci potevi addirittura sparare dentro o buttare una bomba dall’autostrada per farlo fuori. Non era irraggiungibile. Altro discorso per via D’Amelio, che per come è posizionata in città rappresenta una serie di difficoltà logistiche enormi per gli assassini e solo una particolarità: quella di essere sotto la visione perfetta di Castel Utveggio».
Che, risulta dal processo Borsellino bis, era una delle sedi del Sisde di Bruno Contrada.
E che immediatamente dopo l’esplosione fu al centro di un’anomala attività, come hanno dimostrato le indagini e il processo.



Ora le dichiarazioni di Spatuzza, che potrebbero addirittura provocare una revisione del processo. Secondo lei sono credibili?
Ho la sensazione che le dichiarazioni di Spatuzza siano uscite fuori come elemento di disturbo dopo ciò che è emerso da Ciancimino junior. Anche perché se le rivelazioni di Spatuzza da un lato portano elementi diversi da ciò che è emerso dal processo Borsellino bis, fondato sulle dichiarazioni di Scarantino (anche questi si autoaccusò di aver rubato la 126 usata nell’attentato, ndr), dall’altro non portano assolutamente nulla di nuovo su quello che riguarda il filone più importante, che è quello del castello Utveggio e poi su quelli che potremmo definire “i mandanti occulti”. Dichiarazioni che si limitano alla manovalanza della mafia. C’è comunque un elemento interessante, l’unico a mio avviso. Spatuzza, infatti, afferma di aver consegnato l’automobile non solo a persone da lui conosciute come mafiose ma che era presente un altro uomo che non conosceva, che non aveva mai visto, e che comunque non sembrava essere legato a famiglie da lui conosciute. Anche Ciancimino racconta di persona “non conosciuta” e di un “signore distinto” che consegna a funzionari dello Stato il “papello di Riina”, con le richieste di Cosa nostra per una trattativa. C’erano altri che si muovevano in quei giorni.




Ciancimino jr afferma che la trattativa che poi portò al famoso “papello” iniziò prima di quanto finora si pensasse. Agli inizi di giugno. Si tratta di una novità rilevante?
Cambia completamente lo scenario. Emerge che immediatamente dopo Capaci, a giugno, Cosa nostra e pezzi dello Stato, il generale dei carabinieri Mario Mori in particolare, già stavano sondando le disponibilità di una trattativa, anche se come è stato dichiarato “per tendere una trappola”. Emerge anche il fatto che Riina pretendeva che i vertici dello Stato ne fossero informati. Di conseguenza è possibile che anche il ministro dell’Interno ne fosse a conoscenza.

È qui che andate a rileggere l’agenda grigia.
Sì, l’agenda grigia. Non quella rossa fatta sparire dal luogo dell’attentato. Nell’agenda grigia, Paolo annotava a fine giornata gli incontri che aveva avuto, gli spostamenti e perfino le spese sostenute. Il primo luglio è a Roma alla Dia per interrogare Gaspare Mutolo che aveva deciso di collaborare. A metà pomeriggio interrompe l’interrogatorio e si reca al ministero degli Interni. Nell’agenda è riportato che incontra prima il capo della polizia Parisi e di seguito alle 19 e 30 l’appena nominato ministro Nicola Mancino. Poi torna alla Dia. È molto nervoso, sconvolto. Lo racconta un agente della Dia assegnatogli come scorta quel giorno, e anche Mutolo. È distratto. Arriva perfino ad accendersi due sigarette contemporaneamente. Nelle ore in cui lui si trova al ministero dell’Interno qualcosa è successo.
Mancino ha negato di aver incontrato Paolo Borsellino. Invece è confermato l’incontro con Parisi.
In realtà prima ha negato poi ha ritrattato parzialmente dicendo che quel giorno, il primo del suo insediamento, ha stretto tante mani e che non si può ricordare di tutti. In ogni caso non mi sembra molto credibile. Mancino ha dichiarato che si sarebbe dimesso alla minima ombra di sospetto sul suo operato.

Per quali ragioni, secondo lei, dovrebbe negare un episodio così istituzionalmente innocuo come l’incontro fra un ministro e il magistrato più in vista in Italia dopo la strage di Capaci?
Oggi Mancino è il vice presidente del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura. Questa vicenda, evidentemente, lo mette in grave difficoltà proprio nel momento in cui si trova a dover gestire la durissima battaglia sulla riforma della giustizia, i veleni dello scontro fra procure e la sua proposta di aumentare il numero dei componenti non togati del Csm. Proprio perché la vicenda di via D’Amelio è ancora in gran parte irrisolta e piena d’ombre.

Tratto da: 19luglio1992.com

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