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Attraverso quali strumenti la criminalità dei potenti ha stabilito ed esteso il suo dominio fino ad oggi? E con quali conseguenze per lo Stato, nelle sue componenti politiche, economiche ed istituzionali?
Il sigillo del potere, la regia di mandanti occulti eccellenti dietro molte di quelle stragi e di tanti omicidi politici si manifesta in vari modi.
Ad esempio mediante il depistaggio delle indagini della magistratura da parte di soggetti appartenenti ad apparati statali, come è stato accertato per la strage di Portella delle Ginestre e per quella di Bologna.
O ancora mediante l’assassinio degli esecutori materiali delle stragi, depositari di segreti scottanti che minacciavano di rivelare i nomi dei mandanti eccellenti. Tutti gli esecutori materiali della strage di Portella delle Ginestre furono assassinati. L’ultimo, Gaspare Pisciotta, fu ucciso all’interno del carcere dell’Ucciardone con un caffè corretto alla stricnina.
All’interno del carcere fu assassinato anche Buozzi, condannato in primo grado all’ergastolo quale uno degli esecutori materiali della strage di Piazza della Loggia a Brescia.
Un’altra forma in cui si è manifestata la criminalità delle classi dirigenti è stata la mafia.
La mafia non è una creatura di personaggi come Provenzano e Riina, ma una creatura delle classi dirigenti nazionali.
Nel romanzo I promessi sposi, Manzoni  descrive l’ordinarietà del metodo mafioso come metodo di gestione del potere  nell’Italia del 1600.
L’essenza del metodo mafioso consiste nella prepotenza organizzata: cioè nell’abuso di potere personale di minoranze che avvalendosi dell’intimidazione derivante dal potere di cui sono dotate – potere sociale, economico, militare, creano uno stato di assoggettamento  dei singoli piegandoli alla loro volontà.
Se andiamo a leggere la descrizione della fattispecie legale di associazione mafiosa possiamo constatare che non vi è alcun riferimento all’uso delle armi e alla violenza fisica, perché vi sono mille modi di esercitare prepotenza organizzata piegando gli altri: non vi è alcun bisogno di puntare la pistola alla tempia: ti posso ridurre sul lastrico, ti posso impedire di lavorare, ti posso togliere dignità sociale e renderti la vita impossibile.
Nel romanzo I Promessi sposi, don Abbondio si piega ai voleri di Don Rodrigo non solo perché ha timore dei suoi bravi – quelli che oggi chiameremmo i mafiosi dell’ala militare, gli specialisti della violenza - ma anche perché si trova in una condizione di assoggettamento e di omertà che deriva dalla consapevolezza che  Don Rodrigo fa parte di un mondo di potenti al di sopra delle leggi.
Nella  stessa condizione si trova l’avvocato Azzecca – garbugli a cui Renzo Tramaglino si era rivolto nella speranza di trovare un rimedio legale contro la prepotenza, il quale rifiuta l’incarico quando apprende che avrebbe dovuto agire secondo legge contro un potente come  Don Rodrigo al di sopra della legge.
In un’ Italia, quella del Seicento, dove non esistono anticorpi sociali e legali il contro un sistema di potere mafioso, Manzoni è costretto a far intervenire la Provvidenza perché la storia abbia un lieto fine: l’Innominato libera Lucia perché,  colto da una improvvisa crisi esistenziale, si converte. Don Rodrigo viene fermato dalla morte che lo ghermisce con il contagio della peste.
In conclusione la storia esemplifica come la sommatoria di potere militare (i bravi) e di potere sociale (il vincolo associativo derivante dalla solidarietà interna al mondo dei potenti) si traduca in un abuso di potere personale che sostanzia il metodo mafioso.
Questo metodo di esercitare il potere era riconosciuto come legittimo dall’ordinamento giuridico feudale fondato sulla natura personale del potere di papi, imperatori e via discendendo, all’interno di una società castale.
Ed è un metodo con i quale milioni di italiani hanno dovuto convivere  per secoli da vittime o da carnefici. Perché dopo i Don Rodrigo del 1600 sono venuti i suoi eredi: baroni siciliani, l’aristocrazia papalina, quella borbonica e poi  la borghesia mafiosa.
In Italia il feudalesimo è durato sino alle soglie del ventesimo secolo: in Sicilia, per esempio, fu abolito ufficialmente solo nel 1812, idem per il resto del meridione e per gli enormi possedimenti dello stato pontificio in tutta Italia. In Piemonte la servitù della gleba si è protratta sino al 1789.
Quel metodo non è scomparso con la fine del tardofeudalesimo italiano e la nascita tardiva del primo nucleo di  stato liberale  di diritto dopo l’unificazione.
Tuttavia mentre prima il metodo mafioso poteva essere esercitato alla luce del sole perché  riconosciuto legale dall’ordinamento feudale fondato sul potere personale e sul dovere di obbedienza, poi  con l’avvento dello stato liberale, si è trasformato in metodo esercitato illegalmente  e quindi segretamente.
Il primo ad accorgersene fu Leopoldo Franchetti un notabile toscano, uomo della destra liberale che nel 1866 pubblicò un’ inchiesta sulla mafia che a distanza di più di un secolo conserva una sconcertante attualità.
Franchetti scopre che la mafia non era - come lui e tanti in buona fede credevano -  un problema di ordinaria criminalità gestibile con gli usuali strumenti di polizia e di ordine pubblico.
Capisce che la mafia è un mix micidiale di cervello borghese e lupara proletaria.
Si rende infatti conto che i principali capi della mafia sono “facinorosi della classe media”, cioè esponenti della classe dirigente che usano la violenza mafiosa come metodo di gestione del potere e come strumento di lotta politica per reprimere le rivendicazioni dei ceti popolari per un miglioramento delle loro condizioni economiche.
La somministrazione concreta della violenza viene delegata ai mafiosi con la coppola storta – eredi dei bravi di Don Rodrigo e progenitori dei vari Riina e Provenzano - i quali in cambio dei loro servigi ottengono libertà di predazione sul territorio tramite le estorsioni e protezioni.
Da qui secondo Franchetti l’irredimibilità del problema mafia.
Ed infatti poiché la mafia è un’espressione criminale delle classi dirigenti locali solo il governo nazionale potrebbe debellare la mafia.
Ma poiché i governi nazionali – osserva Franchetti - per reggersi hanno bisogno dell’apporto determinante  delle classi dirigenti meridionali, non possono intervenire.
In altri termini i Borgia e i Don Rodrigo continuano a cavalcare la storia anche dopo la nascita del nuovo stato liberale, e la mafia resta un affare di famiglia interno alla classe dirigente nazionale irresolubile perché ha una dimensione macropolitica che attiene agli equilibri politici nazionali.
La diagnosi di Franchetti conserva una straordinaria attualità che attraversa i secoli.
Così come nell’Ottocento, tranne la  parentesi corleonese durata dagli inzi degli anni Ottanta agli inizi degli anni Novanta, i più importanti capi mafia sono sempre  stati  borghesi: il capo della mafia di Corleone prima di Riina e Provenzano era il dott. Michele Navarra, medico chirurgo. Il capo della mafia di Palermo negli anni Ottanta era Michele Greco, un distinto proprietario terriero, ospite dei migliori salotti palermitani.
Alcuni dei più importanti capi della mafia oggi sono medici, avvocati, imprenditori, professionisti.
Quando si fa l’elenco dei poteri forti in Italia,  si dimentica sempre di indicare la borghesia mafiosa siciliana e la massomafia calabrese.

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