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Il 20 marzo 1994 in Somalia venivano assassinati la giornalista del TG3 e il suo cameraman. Tra silenzi e depistaggi clamorosi la verità ancora tarda ad arrivare

Una sanguinosa guerra civile, un’operazione internazionale spacciata come missione di pace, traffici di armi e rifiuti tossici, via mare, corruzione, omertà, silenzi, complicità. E’ in questo marasma di circostanze che la giornalista romana Ilaria Alpi e il cameraman Miran Hrovatin furono trucidati in Somalia il 20 marzo 1994. L’Italia seppe del duplice delitto un’ora dopo la tragedia con un’edizione straordinaria del Tg3, Tv per la quale lavorava Ilaria e Miran, che interruppe la diretta di “Quelli che il calcio”, condotto da un giovanissimo Fazio.
A Flavio Fusi il terribile compito di comunicare la notizia. “Ilaria era una nostra collega - disse con la voce rotta cercando di non abbandonarsi al pianto - era una nostra amica, una ragazza giovane che aveva voglia di lavorare e che aveva passato dei mesi insieme a noi diventando una grande reporter”.
Da quel giorno sono trascorsi trent’anni e nonostante le varie indagini giudiziarie realizzate da ben otto procure e quattro Commissioni d’inchiesta parlamentare, la ricerca dei responsabili ancora non è approdata a un risultato accertato. Per la giustizia italiana, killer, mandanti, complici e movente sono ancora sepolti sotto la sabbia. Tuttavia, sia pure senza il suggello di una sentenza, nonostante le zone d’ombra, oggi appare nettamente più chiara la dinamica dei fatti.
La giornalista del Tg3 RAI e l’operatore erano stati inviati da Roma in Somalia per seguire l’attività del contingente militare italiano, che era il più numeroso all’interno della missione Onu “Restore Hope” (in italiano “Ristabilire speranza”) guidata dagli Stati Uniti. Quella missione aveva il compito - almeno ufficialmente - di stabilizzare il paese spaccato dalla guerra civile e colpito dalla carestia dopo la caduta del ventennale regime di Siad Barre. Ilaria era già stata inviata cinque volte nel paese africano, conosceva il territorio, era abile a muoversi nell’ex colonia italiana, aveva studiato l’arabo all’università ed era una brillante giornalista. Sapeva fare le domande giuste, e soprattutto sapeva farsi voler bene dalle persone per la sua grande sensibilità. Non a caso, riuscì a lavorare per lungo tempo nel Paese senza correre seri pericoli, quando altri colleghi internazionali vennero invece perseguitati da milizie e facinorosi e furono costretti alla fuga.
Durante il suo lavoro aveva raccolto informazioni su un probabile traffico illecito di rifiuti tossici, e forse di armi, tra l’Italia e la Somalia, e aveva cominciato a indagare su quella vicenda, che presentava risvolti affaristici e politici indicibili. Ilaria non era giornalista da salotto, da lancio di agenzie. Amava vedere con i suoi occhi e da vicino. Era una giovane reporter che consumava le suole delle scarpe tra le strade, in mezzo alla gente, riempiendo pagine di taccuini. “A me piace andare, vedere e riferire, e non farmi raccontare da altri ciò che è successo. E questo sempre, in ogni circostanza”, aveva detto qualche mese prima a una sua collega. Così decise di investigare a fondo.




Bosaso, il porto dei misteri

Ilaria Alpi tornò per l’ultima volta in Somalia il 12 marzo 1994, quando le Nazioni Unite avevano già deciso di ritirare le truppe dal territorio poiché la missione fu un totale fallimento. Insieme a lei c’era anche l’operatore tv triestino Miran Hrovatin.
Mentre le ultime truppe si preparavano a lasciare il Paese, i due partirono misteriosamente per Bosaso, una città estremamente pericolosa a nord della Somalia, snodo portuale affacciato sul Golfo di Aden. Secondo la testimonianza di un ex agente appartenente all’organizzazione segreta Gladio, il porto della suddetta città fu uno snodo cruciale per il traffico internazionale di armi, le quali venivano portate nel paese per mezzo di una flotta di navi di proprietà di una società Italiana, la Shifco, gestita dall’imprenditore italo-somalo Omar Mugne. A sostegno di queste dichiarazioni venne redatto anche un rapporto dalle Nazioni Unite che descrisse dettagliatamente come fosse arrivato in Somalia - sempre tramite la Shifco - un grosso carico di armi, molte delle quali provenienti dalla Lettonia.
Nei primi mesi del 1994 una nave della compagnia della Shifco - la Faarax Omar - venne posta sotto sequestro dalle milizie di Bosaso perché ufficialmente non rispettava le normative sulla pesca. Ilaria e Miran la mattina del 15 marzo del 1994 intervistarono Abdullahi Mussa Bogor (fratello del Sultano di Bosaso). Ilaria gli fece delle domande riguardo alla Faarax Omar ma il “governatore” si guardò bene nel rivelare qualsiasi dettaglio sulla nave e sulle operazioni di sequestro. Perché tanta discrezione se la nave trasportava del semplice pesce? E’ probabile che proprio dal sequestro di questa imbarcazione - o meglio dal contenuto di questa imbarcazione sequestrata - che si potrebbe risalire al duplice omicidio dei due giornalisti italiani. Di fatti “se fosse venuta fuori la notizia della presenza di una nave italiana piena di armi o piena di rifiuti radioattivi - aveva spiegato in uno speciale sul caso di “Chi l’ha visto?” il giornalista Maurizio Torrealta - sarebbe stato imbarazzante, inaccettabile”. Soprattutto perché l’Italia in Somalia era in missione di pace, non certo a trafficare armi o depositare scorie radioattive. Di traffici di rifiuti tossici e armi legati al caso Alpi-Hrovatin parlarono anche i giudici del processo per l’omicidio del giornalista Mauro Rostagno. Nello specifico la corte d’Assise di Trapani, che trovò più di un legame tra il caso Rostagno e quello di Ilaria Alpi (il giudice Angelo Pellino citò la Alpi ben 137 volte nelle motivazioni della sentenza contro Valter Virga e Vito Mazzara), definì l’agguato di Mogadiscio come una vicenda “in qualche misura incrociata dalla pista del traffico d’armi in cui si sarebbe imbattuto Rostagno che aveva come destinazione la Somalia, ed era mascherato da aiuti umanitari diretti verso il Corno d’Africa”. “Analogo traffico clandestino intrecciato con quello di rifiuti tossici, si staglierebbe sullo sfondo del duplice omicidio consumato in Mogadiscio, con modalità che hanno fatto ipotizzare un’esecuzione premeditata”, scriveva il giudice riferendosi ad Alpi e Hrovatin.


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Hashi Omar Hassan


Omicidio e depistaggi

A pochi giorni di distanza dai fatti di Bosaso ai due inviati del TG3 iniziarono misteriosamente ad arrivare minacce di morte, come documentato da informative del Sismi. Evidentemente a qualcuno non andava giù che avessero indagato e probabilmente scoperto qualcosa che non dovevano scoprire sul contenuto di quei pescherecci e le loro rotte.
Di ritorno a Mogadiscio, Alpi e Hrovatin andarono prima al loro albergo, il Sahafi, e poi all’hotel Hamana con il loro autista Ali Abdi. Il 20 marzo intorno alle 14.30, i due reporter stavano viaggiando sul fuoristrada, quando una Land Rover li intercettò nei pressi dell’hotel Hamana, vicino all’ambasciata italiana. L’auto venne crivellata dai colpi di mitragliatore: Hrovatin morì sul colpo, Alpi poco dopo per un colpo alla tempia. I killer si diedero poi alla fuga. Due giorni più tardi la procura di Roma avviò una inchiesta, il fascicolo venne affidato al sostituto procuratore Giuseppe Pititto. Nel frattempo nella capitale somala sparirono i taccuini (tra questi quello che utilizzò Ilaria nell’intervista al “sultano”) e le videoregistrazioni, vennero manomessi i bagagli durante le operazioni di rimpatrio. E persino il certificato di morte andò perduto. Era partita la macchina del depistaggio, un sistema corroborato in anni di vicende scabrose che hanno riguardato il nostro Paese. Per alcuni, come la commissione parlamentare d’inchiesta avviata nel 2003 e presieduta dall'avvocato Carlo Taormina, Ilaria e Miran vennero uccisi per via di una rapina finita male. Per altri, vennero assassinati a causa di un fallito tentativo di sequestro. Ma la verità era chiara fin da subito: si trattò di un’esecuzione, come affermò l’ammiraglio Armando Rossitto, ex capo dei servizi sanitari della nave Garibaldi, nonché uno dei primi ad esaminare i corpi di Ilaria e Miran. I referti fatti da Rossitto, che dimostravano un’esecuzione fatta “a bruciapelo da distanza ravvicinata”, vennero consegnati ai magistrati solo dopo due anni. Il 4 maggio 1996, la salma di Ilaria Alpi venne riesumata su ordine del pm Giuseppe Pititto per chiarire la dinamica dei fatti e il 25 giugno dello stesso anno la perizia balistica decretò che il colpo fatale venne esploso a distanza, probabilmente con un kalashnikov.


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L'auto in cui viaggiava Hashi Omar Hassan (foto tratta da GaroweOnline/Twitter)

Hashi Omar Hassan, il capro espiatorio

Il caso Alpi era troppo ingombrante e qualcuno ritenete che dovesse chiudersi quanto prima. Serviva un capro espiatorio. E fu trovato nel gennaio del 1998 quando il cittadino somalo Hashi Omar Hassan venne portato a Roma dall’ambasciatore Giuseppe Cassini per testimoniare insieme ad altri connazionali sullo scandalo, uscito sul settimanale Panorama, concernente le presunte violenze dei soldati italiani in Somalia. Insieme a lui c’era anche l’autista di Alpi e Hrovatin, Sid Abdi, nonostante quest’ultimo non fosse vittima di abusi. Ad ogni modo l’autista sostenne che Hashi fosse uno dei sette uomini del commando che sparò sui due giornalisti italiani. Abdi, al suo arrivo a Fiumicino, venne circondato dai giornalisti che gli chiesero se fosse a conoscenza dell’identità dei killer di Ilaria e Miran. “No, non conosco nessuno di loro”, fu la sua risposta. Eppure, in quel frangente, accanto a lui c’era proprio Hashi, il ragazzo che l’indomani accuserà di essere uno dei sicari.
Ecco quindi che nel giro di 24 ore il giovane Hashi da vittima divenne carnefice. Ad accusarlo c’era anche un altro somalo: il “testimone oculare” Ali Ahmed Ragi detto “Jelle” che, rilasciata la propria testimonianza (fece solo il nome del ragazzo), svanì nel nulla poco prima che questi arrivasse a Roma. Di nuovo un mistero: gli agenti che si occupavano di “Jelle” lo seguivano nei suoi movimenti, gli fornivano denaro e gli trovarono un mestiere, insomma sapevano dov’era. Come aveva fatto a scomparire così facilmente? Intanto il pm Franco Ionta, che prese il posto di Pititto, firmò la richiesta d'arresto per Hashi. Ionta successivamente chiese per il ragazzo la condanna all'ergastolo, ma nel luglio del 1999 il giovane venne assolto. Nel mentre, una nuova perizia balistica sull’omicidio stabiliva che i colpi mortali vennero sparati a bruciapelo, da distanza ravvicinata. Proprio come raccontò Rossitto. Dopo circa un anno dall’assoluzione in primo grado la corte d'Assise d'Appello ribaltò la sentenza condannando Hashi all’ergastolo. Nell’ottobre del 2001, la Cassazione annullò la sentenza d'appello limitatamente all'aggravante della premeditazione e alla mancata concessione delle attenuanti generiche, ma confermò la condanna per omicidio volontario e rinviò il procedimento per nuovo esame ad altra sezione della corte d'assise d'appello. Il 26 giugno 2002, la corte di Assise d'Appello di Roma ridusse a 26 anni la pena per il somalo. Ma Hashi Omar Hassan era innocente e lo sapeva anche “Jelle” che, prima di far perdere le proprie tracce, lo aveva fatto incriminare.


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Ali Ahmed Ragi detto “Gelle”


Solo grazie al lavoro d’inchiesta della redazione di “Chi l’ha visto?” si è potuto arrivare a una svolta processuale. La trasmissione, infatti, nel 2015 rintracciò “Jelle” a Birmingham, in Inghilterra, dove aveva iniziato una nuova vita. L’uomo era imputato in un nuovo processo in contumacia per calunnia al fine di sviare le indagini. Ai microfoni di “Chi l’ha visto?” “Jelle” raccontò una volta per tutte la verità. Disse di non essere un testimone oculare afferma che la sua fu una falsa testimonianza contro Hashi in cambio di soldi “perché gli italiani avevano fretta di chiudere la faccenda”, aggiungendo che “si è montata la storia che Ilaria venne uccisa per una rapina”. Dichiarazioni esplosive che consentirono agli avvocati di Hashi di chiedere la revisione del processo per il loro assistito davanti alla corte d’Appello di Perugia. E il 19 ottobre 2016, dopo 17 anni (di cui dieci in isolamento), 5 mesi e 8 giorni di carcere la Corte d’Appello di Perugia assolse Hashi Omar Hassan “per non aver commesso il fatto” e venne scarcerato e risarcito dallo Stato con 3 milioni di euro. Il somalo morirà poi misteriosamente nel luglio del 2022, ucciso per l’esplosione di una bomba piazzata sotto il sedile della sua auto a Mogadiscio. Un dramma che si somma al dramma in tutta questa storia.


I genitori morti senza verità e lo spiraglio di speranza

Quattro gradi di giudizio, ventuno anni di inchiesta della Procura di Roma, cinque pm a lavorare sul giallo, per poi scoprire che l’unico “colpevole” - oggi deceduto - era in realtà un innocente. Jelle era stato cercato per mettere in atto un depistaggio, depistò, e poi fu lasciato fuggire senza che nessuno gli desse la caccia. La famiglia Alpi, che era convinta dell’innocenza di Hashi Omar Hassan, dovette sopportare anche la beffa di un processo farsa, oltre che il dolore per una figlia trucidata mentre faceva il suo lavoro.


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Ian Hrovatin e Luciana Alpi © Imagoeconomica


"Sono contenta per lui ma sono anche molto amareggiata e depressa" per mia figlia, era stato il primo commento di Luciana Alpi, mamma della 32enne, dopo la sentenza. "Perché è come se lei e Miran Hrovatin fossero morti per il caldo che faceva a Mogadiscio". Luciana lottò tantissimi anni per ottenere verità e giustizia per l’assassinio della figlia, proprio come fece il marito Giorgio Alpi. Questi morì nel 2010 dopo una lunga malattia, senza conoscere la verità e per giunta senza sapere che l’unica persona accusata di averla uccisa alla fine non c’entrava nulla con l’esecuzione. Luciana Alpi - malgrado gli appelli e le estenuanti battaglie legali, quasi sempre concluse con il gelo dell’archiviazione - era certa che la stessa sorte, quella di andarsene senza giustizia e senza verità, sarebbe toccata anche a lei.
Sono sicura che non farò in tempo ad avere risposte alle mie domande sulla morte di Ilaria e Miran”, affermava. “C’è chi aspetta che il buon Dio mi raccolga e che il capitolo Alpi-Hrovatin finisca”. Luciana aveva ragione, purtroppo. Morì nel giugno 2018, col cuore gonfio di tristezza. Ma non è ancora detta l’ultima parola. La rete #Noinonarchiviamo, di cui fanno parte Vittorio Di Trapani, (presidente Fnsi) Daniele Macheda (segretario Usigrai) Guido D’Ubaldo (presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio), Giuseppe Giulietti (coordinatore dei presidi di Articolo 21) e Giulio Vasaturo (avvocato di Articolo 21 che ha seguito la vicenda giudiziaria) ha chiesto e ottenuto la disponibilità a un incontro dal procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voiper fornire tutti i tasselli necessari per sostanziare la richiesta di non archiviare la vicenda”. L’ultima pagina del mistero Alpi-Hrovatin è ancora tutta da scrivere.

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

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