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La magistratura non tratta con i mafiosi

C’è qualcosa di più grave. Sono diventate ricorrenti le voci sulla trattativa che sarebbe in corso, da quasi un anno, fra lo Stato e i boss detenuti. E’ la prova del nove che con la cosiddetta mafia legale il dialogo delle istituzioni è possibile?
C’è un punto di partenza autentico. Quasi un anno fa alcuni boss mafiosi, dal carcere, chiesero di incontrare Pier Luigi Vigna. La richiesta venne accolta. La legge, infatti, prevede che il procuratore nazionale antimafia possa avere colloqui investigativi con i detenuti.
Ma erano tutti boss sottoposti al 41 bis, cioè al regime carcerario che prevede il massimo isolamento per i mafiosi. E’ ovvio che quella richiesta era gravida di conseguenze.
Sì. Ma non c’era altra scelta. Si trattava di andare ad ascoltare e valutare le loro richieste. Alcuni di loro, nel manifestare genericamente di non avere condiviso la strategia stragista del ‘92-‘93, si dichiararono disponibili a dissociarsi pubblicamente.
Fra di loro molti sono detenuti proprio per aver partecipato alle stragi.
Infatti. Nei colloqui non ammettevano né negavano le loro responsabilità. Non entravano nel merito delle posizioni processuali individuali. Si limitavano a sottolineare che non si sentivano più parte dell’organizzazione. Giustificavano questo nuovo atteggiamento con lo sdegno provato quando ormai le stragi erano avvenute. Ma c’era un problema da risolvere …
Quale?
Chiedevano di potersi incontrare fra loro, all’interno delle carceri, per concordare una linea comune. Si rendevano conto che una dissociazione isolata o ridotta a poche unità non avrebbe avuto alcun significato, non avrebbe provocato un dibattito nell’opinione pubblica e che, persino dentro Cosa Nostra, il segnale sarebbe stato frainteso. In altre parole, chiedevano una sospensione, anche parziale e temporanea, del 41 bis.
Chi aveva il potere di modificare il regime carcerario?
Solo il ministro della Giustizia che lo aveva disposto su parere delle forze di polizia e della magistratura. Proprio per questa ragione Vigna informò il ministro Piero Fassino.
E Fassino?
Avviò un’istruttoria. Si rivolse al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per valutare la praticabilità di quella richiesta.
Come si concluse l’istruttoria?
In nessun modo. E’ ancora in corso. La notizia infatti uscì sui giornali e sollevò un grandissimo polverone. Si scoprì che al Senato, da anni, giaceva un disegno di legge che dava dignità all’ipotesi della dissociazione e – fra l’altro – contemplava la possibilità che i dissociati non perdessero i loro patrimoni.
Allora era già percorribile un binario istituzionale?
Non mi sento di affermarlo. Ma quel disegno di legge ci fece intravedere la possibilità che i boss stessero guardando lontano. E’ vero. Non chiedevano contropartite per la loro dissociazione annunciata, ma in futuro cosa sarebbe accaduto?
I boss quale segnale intendevano lanciare?
Volevano ottenere il via libera non solo dagli <<irriducibili>>, coloro cioè che non sono neanche disposti ad ammettere implicitamente d’aver fatto parte di Cosa Nostra, ma anche da chi è ancora libero. Era un modo, dall’interno del carcere, per contribuire alla soluzione di quella frattura fisiologica fra chi sta dentro e soffre e chi sta fuori e si arricchisce. Come ricorderà, abbiamo parlato a lungo di questo delicatissimo nodo dalla cui soluzione potrà discendere o la pace o la guerra tra le famiglie.
L’istruttoria del ministro è ancora aperta. Ma nel febbraio di quest’anno abbiamo assistito alla replica. I giornali sono tornati a dare notizia di un supplemento di trattativa. I colloqui investigativi continuano?
Sì. Ma si è aperta una nuova prospettiva. C’è un boss che non ha escluso la possibilità, in un futuro, di convincere gli altri detenuti a collaborare con la giustizia.
Il pentitismo collettivo?
Le vie della provvidenza giudiziaria sono davvero infinite e sono lastricate di buone intenzioni. Però le sembra plausibile che, in vista di una collaborazione, si autorizzano <<seminari>> di detenuti per la mafia che sarebbero chiamati a discutere su cosa dire e cosa non dire, su quale versione fornire di questo o quel delitto, su quali nomi <<consumare>> o su quali tacere?
Non sarà plausibile né per me né per lei. Ma ammetterà che il dialogo è aperto.
Dobbiamo essere chiari. La magistratura è pronta e disponibile ad accogliere qualsiasi collaborazione. Ma le condizioni restano sempre le stesse.
Cioè?
L’esperienza ci ha insegnato che qualsiasi collaborazione, per essere utile ai fini processuali, deve permettere la verifica delle parole dell’imputato. Il collaboratore dev’essere tenuto quasi in una campana di vetro: non deve avere contatti che possano insinuare il sospetto che le sue rivelazioni siano in qualche modo pilotate.
La trattativa non c’è stata. La trattativa non c’è. La trattativa ci sarà?
Lei insiste. E voglio essere chiaro. La magistratura non tratta con i mafiosi. La magistratura non è interessata in alcun modo a qualsiasi forma di dissociazione. La magistratura non ha alcuna intenzione di concordare, meno che mai agevolare, <<pentimenti collettivi>>. La magistratura, infine, non è in grado di offrire benefici o sconti di pena al di fuori di quelli previsti dalla legge. I proclami di chi si arrende e riconosce l’autorità dello Stato possono essere ricordati nei libri di storia, ma non hanno titolo per entrare nelle aule di giustizia.
Insomma, sì alla dissociazione dei terroristi, no a quella dei mafiosi?
Per chi entra in un’organizzazione spinto dalle ideologie, è possibile che la dissociazione abbia un senso. Per chi entra nelle organizzazioni criminali per realizzare guadagni, la dissociazione sarebbe solo la figlia di calcoli utilitaristici. E poi, lo Stato che vantaggi ne avrebbe? Non farebbe un passo avanti nell’accertamento della verità. Peggio: l’effetto finale, al di là delle buone intenzioni, sarebbe quello di alimentare false illusioni.
E’ altrettanto sicuro che l’ipotesi della trattativa non stia facendo proseliti fra gli uomini politici?
Mi auguro che non sia così. Voglio sperare che ci si renda conto tutti che l’indisponibilità dei magistrati a trattare con i mafiosi non corrisponde a un’affermazione di principio corporativa. Interpreta infatti i sentimenti della maggior parte dell’opinione pubblica e – soprattutto – dei familiari delle vittime della mafia. E’ un patrimonio collettivo di valori che dobbiamo tutelare. Quei politici che dovessero far prevale interessi diversi se ne assumerebbero la responsabilità di fronte al Paese.
Tratto da La mafia invisibile di Saverio Lodato e Pietro Grasso, Edizione Mondadori. Da pg.162 a pg.165


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