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Indice articoli

La mafia trasversale

di Giorgio Bongiovanni
Le motivazioni delle sentenze delle stragi di Capaci, Via D’Amelio e per le bombe del 1993 non lasciano spazio al minimo dubbio. Parti dello Stato italiano, in ginocchio dopo il brutale, violento e ripetuto attacco frontale di Cosa Nostra, avvenuto a cavallo degli anni ‘92 e ‘93, hanno trattato con i mafiosi. Le modalità, le finalità, i confini e i compromessi con cui si sono sviluppati i colloqui tra le istituzioni e i rappresentanti dell’organizzazione criminale sono stati delineati nelle ricostruzioni fornite da più collaboratori di giustizia e dagli stessi uomini dello Stato coinvolti. Tuttavia, come sempre, i lati oscuri sono diversi e lasciano intravedere un quadro molto più inquietante di quanto appaia quello esplicito. E’ per questo motivo che le procure di Palermo e Caltanissetta hanno aperto un’inchiesta sulla trattativa tra Mafia e Stato.




Firenze, 1998


«Signor Bagarella, ma questa trattativa ci fu o non ci fu?»
«E lo chiede a me? Lo chieda a lui.»
«Lui ne sta parlando da mezz’ora. Dice che lei era informato»
«Quello è un mostro...»
«Dunque lei della trattativa non ha mai saputo nulla?»
«Quello è un bastardo. Ma lei cos’è? Giornalista? Ah... Mi raccomando senza sbagliare a scrivere».
«Ha detto bastardo. O No?»
«Bastardo. Bastardo».

Siamo a Firenze, è il 13 gennaio 1998, nell’aula bunker si celebra il processo per le stragi del 1993. Leoluca Bagarella è rinchiuso nella gabbia numero uno e ascolta. Ascolta Giovanni Brusca mentre risponde alle puntigliose domande del pubblico ministero Gabriele Chelazzi che vuole conoscere tutti i dettagli della trattativa tra Cosa Nostra e Stato. (*) Non si lascia sfuggire l’occasione il giornalista dell’Unità Saverio Lodato; si avvicina e lo provoca. Bagarella è adirato, ma non smentisce. Inveisce contro Brusca ma non gli dà del bugiardo, semplicemente, lo insulta.

Palermo, 1996

Enrico Deaglio, direttore del settimanaleIl Diario, entra nell’aula. A processo ci sono i fratelli Graviano, accusati di essere i mandanti dell’omicidio di Don Puglisi, il prete di Brancaccio che lottava contro la mafia, apertamente, per salvare i suoi ragazzi dalla strada. A Brancaccio, il territorio dei Graviano. Ma i due fratelli Filippo e Giuseppe, benché giovani, sono implicati in molte altre questioni, tra cui il procedimento a carico di Marcello Dell’Utri e quello delle bombe del ‘93.
A Palazzo di Giustizia, nel suo ufficio, c’è ad attenderlo Roberto Scarpinato che gli spiega il ruolo dei fratelli Graviano: <<I Graviano sono molto implicati nella campagna terroristica di Cosa Nostra del 1993. Se parlassero sono nella condizione di spiegare molte cose. Le bombe di Firenze, Roma e Milano le conosciamo e i Graviano sono tra quelli che le hanno organizzate. Cosa volevano? Far pressione sul governo Ciampi. Ma, per quanto sappiamo noi, ci sono altre due cose: la prima è che Cosa Nostra non ha agito da sola. La seconda è che il piano era ben più vasto. Dopo quelle bombe, avrebbe dovuto scoppiarne una allo stadio Olimpico di Roma, all’uscita di una partita. Poi una in piazza dei Miracoli a Pisa, una al palazzo della Dia a Napoli, poi era programmato l’omicidio di Gianni De Gennaro. E, a fine 1993, con le dichiarazioni del dirigente del Sisde Broccoletti, sia il capo dello Stato, Scalfaro, sia il ministro degli Interni, Mancino, avrebbero dovuto essere messi sotto accusa. Questo, secondo noi, era uno scenario.
Qual era l’obiettivo? Direi la divisione dell’Italia, con un sud in mano alla mafia. Perché non si è attuato? Resistenze superiori al previsto. E’ finito il pericolo? Non credo. Sulle stragi del 1993, sui contatti e sui mandanti che Cosa Nostra aveva: ambienti imprenditoriali, apparati dello Stato, massoneria, stanno indagando le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, ma finora, se ben capisco, non c’è che qualche esile pista. C’e molto da lavorare. Ma chi pensa di disegnare l’Italia futura, sappia che non la si può scrivere con i mandanti delle stragi. La corruzione si può sopportare. Le stragi, no. Questo è il mio parere. Se poi mi diranno che tutto ciò non interessa, d’accordo: l’ultimo che esce, spegnerà la luce. Noi qui stiamo combattendo una battaglia di una parte della società italiana contro l’altra e, devo dire, in questo momento nessuno ci chiede di farlo>>.

Palermo, 2002, 1992, 1982, 1972...

Finalmente dopo 5 lunghi anni di oblio, l’Onorevole Luciano Violante è tornato a parlare di antimafia.
A Palermo, in occasione di un convegno organizzato da «Magistratura Democratica» ripercorre le tappe della lotta alla mafia dagli anni ‘60 a oggi e non può fare a meno di evidenziare i flussi e i riflussi storici che caratterizzano l’azione di contrasto alla criminalità organizzata.
«Siamo entrati in un ciclo mafioso che ricorda il clima che ha preceduto i delitti eccellenti nel 1961, nel 1972, nel 1982, nel 1992. Evitiamo di isolare le persone che lottano contro la mafia». Il riferimento esplicito è alla guerra in corso tra politica e magistratura che sta determinando l’isolamento e persino la messa all’indice dei magistrati in prima linea. La storia si ripete, così fecero con il generale Dalla Chiesa, con Falcone, con Borsellino e con tutti quelli che li precedettero, politici e non.
All’isolamento segue la morte, poi una reazione e poi silenzio, silenzio e così via da quaranta anni a questa parte.
E la regia del silenzio di questi anni è tutta di Bernardo Provenzano che ha riportato Cosa Nostra nell’ombra, lontano dall’attenzione di tutti, dove ha ricucito, ripristinato, sostituito e soprattutto ha ristabilito i giusti equilibri. Un lavoro accurato, meticoloso per cui aveva persino pronosticato il tempo necessario.
Lo confermano gli atti ufficiali del processo «Grande Oriente» in cui è stata riconosciuta l’attendibilità del confidente del Ros, Luigi Ilardo, ucciso a Catania proprio qualche giorno prima di diventare collaboratore di giustizia (*), che aveva portato i carabinieri ad un passo dalla cattura del latitante. Questi aveva riferito al colonnello Riccio, incaricato di raccogliere le sue dichiarazioni, che «u zu Bino» prevedeva un riassestamento dell’organizzazione in un periodo che andava dai 5 ai 7 anni.
E sarebbe questo il periodo, visto che l’incontro con Provenzano è datato 31 ottobre 1995. «Sono trascorsi di fatto esattamente 7 anni - prosegue Violante - non so se le cose si siano aggiustate per lui, so che siamo entrati in un ciclo mafioso che ricorda il clima che precedette i delitti eccellenti».
Allarme destato anche dal procuratore generale Salvatore Celesti che, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, in base alle informazioni del suo ufficio, si è detto preoccupatissimo che la mafia possa tornare a colpire alto.
Quali sarebbero però queste informazioni?
Violante individua la chiave di questa nuova fase di rischio nel progetto di dissociazione che già da diverso tempo stanno cercando di mettere a punto i carcerati di grosso calibro come Salvatore Biondino o Piddu Madonia, entrambi capi mandamento, l’uno di San Lorenzo, l’altro di Caltanissetta e vicinissimi a Riina.
«La dissociazione, all’interno della linea strategica di Provenzano, è il rimedio per ridurre al minimo i danni possibili».
Da qui il grave pericolo per tutti coloro che «stanno denunciando - spiega l’esponente DS - che l’operazione dissociazione è tutta funzionale al consolidamento di Cosa Nostra. Se in questo clima qualcuno si adopera in modo particolarmente attivo per l’arresto dei latitanti, la confisca dei patrimoni, oppure per la condanna definitiva dei capi mafia, a quel punto la ‘pax mafiosa’ salta».
E quei pochi che in questo momento stanno lottando strenuamente, contro tutti e senza mezzi, sono proprio quei «magistrati facinorosi» costretti ad esporsi pur di compiere il loro dovere di applicare la legge in modo eguale per tutti.

Mezzojuso, ottobre 1995

«Lo scrivente, (Michele Riccio ndr.) alle ore 23,00 del 31 ottobre 1995, incontrava la fonte (Luigi Ilardo ndr.) che riferiva di aver incontrato il latitante Bernardo Provenzano in una casa con ovile posta lungo una trazzera che partiva sulla destra lungo il segmento stradale che collega i comuni di Mezzojuso e Vicari, appartenente allo scorrimento veloce che porta da Palermo ad Agrigento. (...)
La stradina di campagna ha un fondo molto dissestato e per un primo tratto corre parallela all’autostradale in direzione di Palermo per poi subito inerpicarsi verso due case coloniche poste a 2 km dall’imbocco della ‘trazzera’. La costruzione più in alto ha il tetto e la facciata di colore rossastro, mentre quella più in basso è grigia e ha un ovile; in questa il confidente asseriva di aver incontrato il PROVENZANO.
Entrambe le case erano utilizzate dal latitante per aver incontri con i suoi più stretti e fidati referenti.
Il capo di Cosa Nostra si avvaleva dell’appoggio della maggior parte dei contadini e pastori della zona in quanto, nel corso dell’incontro, durato circa otto ore, molte persone, venendo anche a piedi, si erano raccolte intorno alla casa con ovile, ed al momento del pranzo erano una decina circa.
Il proprietario di una fattoria sita sul lato sinistro dello scorrimento veloce, poco dopo il predetto distributore di benzina, di nome CONO era la persona che aveva preparato il pranzo. Questi, giunto intorno alle ore undici a bordo di una Fiat Campagnola furgonata di colore verde, conosceva perfettamente le esigenze alimentari del PROVENZANO, in quanto gli aveva cotto la carne al sangue e senza sale, come lo stato di salute del latitante gli necessitava. CONO è una persona di circa 60 anni, altro mt. 1,68 circa, di costituzione molto robusta con capelli brizzolati tendenti al bianco. (Si tratta di Nicolò La Barbera, arrestato il 1 febbraio 2001 assieme al boss, Benedetto Spera ndr.)
PROVENZANO presentava i seguenti caratteri somatici:
-altezza 1,69-1,71 mt. circa;
-magro, il volto scarnato come se avesse due fosse, ed anche vicino alle tempie presenta due fossette;
-capelli corti brizzolati di colore castano tendente al rossiccio ed al bianco, fortemente stempiato.
Al momento dell’incontro il latitante indossava una maglietta a polo con sopra un maglione a collo a «v», pantaloni a coste grosse, ed un giaccone pesante; il classico abbigliamento da agricoltore ed anche la persona si sposava perfettamente con tale aspetto.
A conferma di tale impressione lo stesso PROVENZANO affermava, di non aver alcun problema nel muoversi, in quanto tutti lo scambiavano per un qualsiasi contadino; tanto è vero che due giorni prima nel momento in cui si era levato il catetere per la prostata, aveva fatto 25 Km in macchina, per incontrare una persona molto importante, che il confidente riteneva trattarsi di Brusca, alla luce delle sue vicende.»
Questo quanto riferito dall’Ilardo al colonnello Riccio circa il suo incontro con il boss.
Tra i vari argomenti trattati, la tensione creata dalla «irritante e preoccupante espansione autonomista di BRUSCA all’interno di Cosa Nostra», supportata da alcuni esponenti della famiglia di Catania e in particolar di Agrigento. Benché «le tragedie» e gli inganni tra i vari membri dell’organizzazione fossero frequenti, erano aumentate notevolmente all’indomani dell’azione repressiva esercitata dalle forze dell’ordine negli anni successivi alle stragi. Tuttavia Provenzano, comunque temuto e rispettato da tutti, invita a «non ricorrere al momento a scontri armati con il gruppo di Brusca, anche se dovevano tendere ad evidenziare sempre più gli errori comportamentali del predetto e dei suoi amici, alla luce dell’attuale situazione politica che non avrebbe tollerato simili manifestazioni». Quindi era molto guardingo, vigile nel non destare l’attenzione delle forze dell’ordine in quel momento ancora molto alta. Invitava perciò i suoi alla calma in quanto «riteneva che fra 5-7 anni avrebbero recuperato una sufficiente tranquillità per condurre i propri affari e migliorare la situazione economica dell’organizzazione ora precaria».

Mezzojuso, gennaio 1996

Evidentemente, però, non tutto stava procedendo come previsto perché solo poco tempo dopo, sempre secondo le ricostruzioni effettuate a seguito delle confidenze di Ilardo, la strategia «pacifica» di Provenzano viene rimessa in discussione in una riunione di Palermitani.
«Agli inizi del mese di gennaio 1996 lo scrivente incontrava riservatamente, più volte, il confidente che lo ragguagliava sugli ultimi sviluppi delle sue attività tese ad ottenere l’incontro con Bernardo PROVENZANO. (...) Aveva ricevuto la visita del Lorenzo VACCARO di rientro dal contatto con il PROVENZANO che gli aveva riferito che:
(...) Il PROVENZANO  non lo aveva ricevuto immediatamente, in quanto era impegnato in una importante riunione con circa sette/otto «palermitani» tra i quali era presente anche Pietro AGLIERI. Questi era stato anche presentato ed aveva voluto conoscere quale fosse la situazione nel territorio di Caltanissetta. Alcuni dei «palermitani» probabilmente rappresentanti dei vari mandamenti della provincia, gli avevano confidato che l’oggetto della riunione era quello di valutare  la eventuale ripresa della linea operativa di Giovanni BRUSCA, assente all’incontro, ovvero quella che prevedeva l’attuazione di nuovi attentati dinamitardi.
Tale proposta nasceva dal fatto che l’attività repressiva delle Forze di Polizia non era diminuita di intensità e che le forze politiche «presunte amiche» non avevano mostrato alcun significativo segnale di aiuto per la loro Organizzazione.
Questa volta avrebbero seguito una strategia operativa simile a quella perpetrata dall’ «ETA» colpendo gli appartenenti alle Forze dell’Ordine e le loro strutture logistiche non attentando possibilmente a singoli soggetti ma bensì a pattuglie o dispositivi più numerosi di uomini.
Sicuramente avrebbero fiaccato il morale e la compattezza delle Forze di Polizia, costringendo lo Stato, pressato anche dall’opinione pubblica, gravemente impressionata dagli eventi delittuosi ad ottenere un contatto per Cosa Nostra per tentare di risolvere la drammatica situazione».

Roma 1995-2002

Facciamo un passo indietro. Nel corso di questi 5-7 anni si sono avvicendate al governo italiano due fazioni opposte, per la maggiore è stata «la sinistra» a dirigere il Paese, oggi invece è «la destra» al potere.
Tuttavia, a partire da quella data, analizzando nei dettagli gli avvenimenti di quegli anni, non si può che individuare una sorta di continuità nelle decisioni dei due schieramenti proprio in termini di giustizia e di legalità, a partire dalla campagna di delegittimazione dei magistrati in trincea ad arrivare alla precisa politica di smantellamento dell’ordinamento dei collaboratori di giustizia.
Intervistato nel gennaio del 1997 da Enrico Deaglio, l’allora procuratore di Palermo, Gian Carlo Caselli, radiografa la situazione del tempo e diagnostica la malattia a venire, oggi probabilmente in metastasi.
«Circola l’illusione che la partita sia stata chiusa: è la più pericolosa delle illusioni che possano circolare oggi in Italia. Proprio per comunicare queste nostre preoccupazioni ho fatto mesi fa a Roma il giro delle sette chiese. Perché Signor Procuratore, Palermo oggi non interessa più? Lo posso capire: grossi nomi arrestati, buoni risultati complessivi. Ma credo che tra i miei compiti ci sia anche quello di dire forte che illudendosi che il più sia stato fatto si compia un atto di presunzione. Le ripeto: sono ancora forti, sono ancora pericolosi. Sono un’azienda che ha almeno 50 anni di attività, che fa profitti come nessun’altra. Dottor Caselli, ancora l’estate scorsa (1996 ndr.) si parlava di una possibile resa di Cosa Nostra. Io ero molto più cauto, ma certo l’estate scorsa erano in seria difficoltà. Oggi direi che stanno riassestandosi. Hanno perso i corleonesi, ma per loro è stato come perdere un drappello. (...) Pessimista ancora no, preoccupato sì». «La preoccupazione viene da quello che si chiama ‘calo di interesse’, sinonimo di «solitudine.
In città. A Roma. Abbandono da parte di una sinistra che, dopo aver sventolato per decenni la bandiera della lotta alle cosche, oggi non perde occasione per far sapere che la sua linea è cambiata, che i magistrati hanno esagerato, che parlano troppo, che inseguono teoremi. Poi c’è il primato della politica, che si nutre di realismo e l’opinione pubblica chiamata a far raffronti tra il salario del pentito e quello del pensionato. E infine la Sicilia, terra di veleni e di macelli, che ormai annoia. Le coscienze necessitano di stragi per svegliarsi e sono tre anni che non si ammazza in Italia: uno dei periodi più lunghi della nostra storia recente. Stiamo vivendo un nostro dopoguerra, insomma.»
Teoremi, insinuazioni dei magistrati, le stesse obiezioni mosse a Violante dagli esponenti del centro destra.
Quindi, il discredito crea il clima, perché solo di apparente conoscenza si accontenta il grande pubblico, facilmente condizionabile, ... e creato l’ambiente si può dare inizio alle riforme.
Numero uno, tolte le scorte ai magistrati «facinorosi», dati in pasto all’ignoranza come «esaltati, pretenziosi, protagonisti e politicizzati». La sinistra ha iniziato, la destra ha concluso.
Si passi poi alle modifiche legislative approvate in questi anni da entrambi i governi che hanno assolto, «in ordine alfabetico», la quasi totalità delle richieste formulate da Riina nel famoso «papello» di cui abbiamo parlato nel numero scorso.
Eliminare i collaboratori di giustizia: il danno più grave arrecato all’organizzazione in tutta la sua storia, parola di Riina! In tutta risposta l’attuale legge ha spinto persino il capo della Procura di Palermo, Piero Grasso a dichiarare alla stampa: «se fossi un mafioso non mi pentirei».
Abolizione dell’ergastolo. Se non fosse stato per un decreto di salvataggio, approvato all’ultimo momento dal governo, oggi nessuno dei mafiosi sarebbe condannato al carcere a vita, rimane però comunque il diritto al rito abbreviato che di fatto elimina l’ergastolo, in quanto la massima pena prevista giunge solo a 30 anni.
Abolizione del 41bis, il carcere di massima sicurezza. Per ragioni, legittime, di carattere umanitario, si è deciso di concedere benefici anche ai mafiosi che sono passati dall’isolamento quasi totale, atto a determinare un vero e proprio ambiente impermeabile per i boss, all’usufrutto di alcune ore di «socialità» e di comunicazione con i parenti. Dalle recenti intercettazioni che hanno portato all’arresto di 28 fiancheggiatori di Provenzano si evince che Riina e Bagarella non hanno affatto perso il loro ruolo, tanto che il capo latitante attende «indicazioni» prima di deliberare ordini.
Confisca dei beni. E’ dai tempi di Pio La Torre, assassinato nel 1982, che si attende un provvedimento che funzioni seriamente. Delle centinaia di miliardi confiscati ai mafiosi, solo un’esigua quanto risibile parte è stata bonificata e riutilizzata. Addirittura, oggi, i beni potranno essere venduti all’asta, così da permettere tranquillamente ai «familiari» in libertà di riacquistarli.
E oltre.
Considerato che del «papello» conosciamo solo questo, non possiamo sapere se gli ultimi «regali» alla mafia fossero compresi nel contratto di trattativa, di fatto però facilitano, e di molto, la vita a Cosa Nostra.
Falso in bilancio, non è più un reato, rogatorie estere, l’unico mezzo efficiente per scovare le prove di riciclaggio di denaro illecito all’estero, diventano facilmente inutilizzabili per via di caviili e rientro dei capitali esteri, lavati e stirati, in Italia.

Palermo. Di larghe intese

Non solo dunque Provenzano ha «rimesso in piedi il giocattolo», (per usare un’espressione di Pino Lipari vedi pag. 2), ma l’ha ulteriormente arricchito e soprattutto garantito.
Come? Perché a differenza del suo predecessore, iracondo e un po’ razzista, zu Bino ha attuato la politica delle larghe intese, non ha escluso nessuno dal tavolino. Ha saputo guardare al fine: «i piccioli», cioè «potere contrattuale», che, soprattutto, non hanno né colore, né sapore, né odore.
«Una mente raffinata come quella del signor Provenzano - spiega il collaboratore di giustizia Angelo Siino durante un interrogatorio del 15 aprile 1998 - decise di coprirsi le spalle facendo partecipare le cooperative rosse, mentre Riina a Corleone, buzzurro, pecuraro, li aveva buttate fuori». Compare Totò - scrivono Ernesto Oliva e Salvo Palazzolo nel loro libro L’altra mafia. Biografia di Bernardo Provenzano - storceva il naso e sbraitava: i comunisti non li ha mai graditi in casa propria e non ne faceva mistero. Anzi, fosse stato per lui, non gli avrebbe lasciato neanche le bricciole dei lucrosi appalti. La Procura di Palermo ritiene che nella seconda metà degli anni Ottanta, se ne infischiò addirittura delle raccomandazioni di Ciancimino, Lima e Siino e tagliò fuori un impresa «rossa», la De Bartolomeis, dall’appalto dell’azienda acquedotti per alcuni lavori miliardari nella periferia orientale di Palermo. L’amministratore dell’impresa, Romano Tronci, è poi finito in carcere: «Venne con l’imput di Ciancimino - ha raccontato Siino, all’epoca ministro dei lavori pubblici di don Totò - e disse: mi sponsorizzi su tutta la Sicilia? E io accettai di buon grado anche perché sapevo che dietro di lui c’era il Partito Comunista, almeno lui diceva e anche Lima me lo aveva confermato che c’era il Partito Comunista. Addirittura un giorno, Lima mi mandò fino in Calabria per fare abbassare la percentuale che avevano chiesto, il 7 per cento...»
Tronci venne escluso dall’appalto. Ciancimino spiegò che il responsabile del dicastero dei lavori pubblici di Cosa Nostra era stato sostituito:non più Siino, ma quel Pino Lipari che anni prima aveva abbandonato il patriarca Gaetano Badalamenti per mettersi al servizio di Provenzano. Il nuovo ministro cercò subito di rimediare al torto subito: prima, rimproverò Siino - <<perché hai fatto questa parte a Tronci? -, poi gli spiegò senza mezzi termini << (...) Viri ca chisti sunnu vicini ai comunisti...>>.
La risposta non si fece attendere: <<Senti allora com’è - replicò deciso Siino - Quando i comunisti li avevo io per la San Cipirello - erano tinti, ora ca l’hai tu su boni...>>.
(...) Giovanni Brusca ha usato un’espressione colorita per sostenere davanti al procuratore Caselli quello che la De Bartolomeis era diventata per Bernardo Provenzano: <<Il prezzemolo di tutti i lavori che si svolgevano a Palermo>>. E i siciliani amano aggiungere prezzemolo a ogni pietanza. Per dare sapore. Una prelibatezza.

Italia, 2000-2002

Partita chiusa, allora? No, niente affatto. Il super latitante ha ancora un problema da risolvere. In tutti questi anni non è ancora stata resa possibile la revisione del maxi processo con la distruzione definitiva del cosiddetto «teorema Buscetta» che ha permesso a Falcone e Borsellino e al pool di allora di ingabbiare tutta la cupola di Cosa Nostra. Quindi i grandi capi e molti altri uomini d’onore sono in carcere. E sono in tanti, un popolo. Quindi come ovviare le pressanti richieste di miglioramento della vita da detenuti del popolo delle carceri?
Una parola che si ripete a cicli ed esce proprio dalla bocca di autorevoli boss: la dissociazione.
E’ dalla scorsa legislatura che l’eletto portavoce dei richiedenti Pippo Calò annuncia che vuole dissociarsi. Più volte le polemiche hanno travolto il Procuratore Nazionale Antimafia, Pier Luigi Vigna, che le indiscrezioni giornalistiche davano a colloquio con i boss in «trattativa» per prendere le distanze dall’organizzazione madre e ricevere benefici carcerari, ...magari l’abolizione dell’ergastolo; o l’ulteriore alleviamento del regime 41 bis.
A seguire il vecchio Calò ci sarebbero addirittura Salvatore Biondino, braccio destro di Riina, Piddu Madonia, capo storico della famiglia di Caltanissetta, Pietro Aglieri,  capo mandamento della Guadagna e addirittura un capo della ‘Ndrangheta, Antonino Imerti.
In una lettera fatta pervenire alla III Corte di Assise di Appello di Caltanissetta nel procedimento n. 19/00 R.G. detto «D’Amelio ter» il 24 settembre 2001 Giuseppe Calò, detto Pippo, capo mandamento di Porta Nuova scrive:
«(...) Ho settanta anni, condannato già con sentenze passate in giudicato all’ergastolo. Giudicato sempre per teoremi, con processi sommari e per sentito dire. Sono rassegnato e consapevole che gli ultimi anni della mia vita dovrò trascorrerli in carcere. Ma mai mi rassegnerò di essere condannato per strage, di qualsiasi strage. Non sono uno stragista, non ho deciso nessuna strage e non sono un sanguinario. Per me è un questione morale. E per questo motivo ho deciso di difendermi, quello che non ho fatto fino ad oggi. Anticipo che non sarò un pentito anche perché per le responsabilità che ho, non so di che pentirmi, e non farò nomi. Ho fatto parte di Cosa Nostra, ma tengo a precisare che da tanti anni mi sono estraniato da Cosa Nostra e così sarà per il futuro.
Ho fatto parte anche della Commissione nel periodo che va dal 1979 al 1981 aprile. Perché dopo questa data non esiste più Commissione, così come non sono più esistite le regole. Contrariamente a quello che dicono i collaboratori. (...) Anticiperò nel dire che quando esisteva la Commissione non aveva mai deciso omicidi, specialmente omicidi eccellenti.
(...) La Commissione nasce per la garanzia di chi ne faceva parte,e per evitare contrasti tra le varie famiglie.
(...) Ci sono stati omicidi eccellenti (come vengono chiamati) che Cosa Nostra, chiunque di Cosa Nostra è estraneo.»  Per tanto chiede il confronto con Salvatore Cancemi, il suo sotstituto in Commissione (nemmeno questo sarebbe vero) e attacca, smentisce e demolisce la figura di Buscetta. C’è una buona parola anche per Francesco Di Carlo. Si scusa per l’ortografia e «con osservanza» saluta.
Sarebbe superfluo dire che le condizioni di Calò sono inaccettabili. (E il procuratore Piero Grasso, nel suo libro La mafia invisibile (vedi box) ha spiegato nei dettagli il perché). Pretende di parlare, ma come e nei termini da lui stabiliti, cosa che, fortunatamente, la Corte si è rifiutata di consentire. Eppure c’è stato chi, come l’avvocato (deputato, ex ministro ecc...) Carlo Taormina, ha accolto con favore l’iniziativa defininendola comunque «un primo passo», per cui, ammissibile.

Italia, futuro


Ricapitolando. Nel 1995 Provenzano assicura ai suoi che avrebbe risolto tutto nel giro di 5-7 anni. Nel 1996, invece, si pensa di tornare a dilogar con bombe. Nel 1997 il Procuratore Caselli si dice preoccupato perché mentre nel 1996 era concreta la possibilità di sferrare un colpo definitivo a Cosa Nostra, in quel momento l’organizzazione si stava riassestando. E da allora ad oggi un’escalation di provvedimenti, silenzi, attacchi ingiuriosi, delegittimazioni.
Se non ha ancora vinto, la mafia vince.
Ora, posto che la nostra ricostruzione sia esatta, occorre chiedersi quale potere contrattuale Provenzano possegga per poter esercitare la politica trasversale.
Sempre Deaglio nel 1997, scrive: «Quando si indaga sui loro beni (dei mafiosi ndr), si trovano case, imprese edili, terreni, automobili, ma ‘il filone d’oro’, la pista dei colletti bianchi, gli ‘enormi flussi’ di cui ormai tutti parlano, dove sono?
Luciano Violante parlò un anno fa (1996 ndr.) di 69.000 miliardi di fatturato criminale annuo, risultato di un conteggio puntiglioso. (Secondo i dati forniti dalla Confcommercio nel 2000 si parla di un fatturato che va oltre i 300.000 miliardi e un patrimonio che si aggira attorno ai 2 milioni di miliardi ndr.) Nessuno ha proposto altre cifre. 69.000 miliardi sono il fatturato Fiat, o, se volete, il costo di tre grosse finanziarie. Ma, ormai, si possono ancora considerare «il maltolto», o piuttosto una «parte integrante» della società italiana? Non sarà che il realismo ci impone di prendere atto che siamo un paese con la sua normale quantità circolante di denaro sporco, di una accumulazione che dura da molti anni, di profitti illegali che crescono ad un ritmo ben superiore di quelli legali? Non sarà che bombe, missili e bazooka servono a far sapere a tutti che nessuno accetta di farsi sottrarre un’impresa così ben avviata? Lo Stato, da quando è a conoscenza di questi giacimenti, ha mai fatto qualcosa per rientrarne in possesso? I dati dicono di no: negli ultimi quattro anni sono stati sequestrati beni mafiosi per circa 10.000 miliardi, ma solo l’1% di questa cifra è stato confiscato. Tutto il resto è ritornato ai legittimi proprietari. La legge, evidentemente, non funziona, o forse è stata fatta perché funzionasse così».


Fonti
S.LodatoVenti anni di mafia, Bur, Milano, aprile 1999
S. Lodato, Pietro Grasso La mafia invisibile, Mondadori, Milano, aprile 2001
L. Tescaroli, Perché fu ucciso Giovanni Falcone, Rubettino, Catanzaro, luglio 2001
E. Oliva, S. Palazzolo L’altra mafia. Biografia di Bernardo Provenzano, Rubettino, Catanzaro, luglio 2001
A. Baudo, Tracce di memoria, Arci, Palermo, dicembre 1998
E. Deaglio <<Alle 18.04 di oggi, è vero>>, articolo tratto da Diario, 22/28 gennaio 1997


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