di Giorgio Bongiovanni
3 settembre 1982. In via Isidoro Carini, a Palermo, un commando di Cosa Nostra uccide il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Tutti trucidati a colpi di kalashnikov AK-47. Trentasei anni sono passati da quella sera. Qualche anno fa Totò Riina, in uno dei suoi “racconti” al compagno d'ora d'aria pugliese, Alberto Lorusso, aveva raccontato gli attimi dell'eccidio, dimostrando tutta la propria ferocia: “Appena è uscito lui con sua moglie, lo abbiamo seguito a distanza. Potevo farlo là, per essere più spettacolare, nell’albergo, però queste cose a me mi danno fastidio… L’indomani gli ho detto: 'Pino, Pino (si riferisce a Pino Greco detto "Scarpuzzedda", uno dei più famigerati killer di Cosa Nostra) vedi di andare a cercare queste cose che … prepariamo armi'. A primo colpo, a primo colpo ci siamo andati noi altri… eravamo qualche sette, otto di quelli terribili, eravamo terribili. Nel frattempo lui era morto ma pure che era morto gli abbiamo sparato là dove stava, appena è uscito fa… ta… ta..., ta… ed è morto”.
Quelle parole si aggiungono alle testimonianze di collaboratori di giustizia come Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo che già avevano raccontato agli investigatori le dinamiche dell'agguato, consentendo di identificare i killer ed i vertici di Cosa Nostra che ordinarono l’azione omicida.
Ganci e Anzelmo, per la morte del generale hanno dovuto scontare 14 anni di reclusione. Così si è saputo che l'A112, su cui si trovavano il prefetto e la moglie, venne affiancata e superata da una Bmw 518 su cui viaggiavano Antonino Madonia e Calogero Ganci. A fare fuoco con un kalashnikov fu Madonia. Una seconda vettura, guidata da Anzelmo, seguiva il prefetto, pronta ad intervenire per bloccare l'eventuale reazione dell'agente di scorta. Russo fu assassinato da Pino Greco “Scarpuzzedda” che seguiva i suoi complici a bordo di una moto. La A112, dopo essere stata investita dal fuoco del kalashnikov, sbandò, costringendo l'auto dei killer a sterzare bruscamente a destra. I mandanti del massacro, più di quindici anni fa, sono stati tutti condannati al maxiprocesso alla mafia iniziato nell'86 e conclusosi il 17 dicembre del 1987. E il carcere a vita, con sentenza divenuta definitiva nel '92, venne comminato ai massimi vertici della Cupola fra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò e Michele Greco mentre fu condannato, in primo grado, ma poi assolto in appello Nitto Santapaola, capo della mafia catanese. Due dei killer, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia, sono stati condannati all'ergastolo. Successivamente la Corte d'Assise di Palermo, presieduta da Claudio Dall'Acqua, condannò sempre all'ergastolo gli ultimi due componenti del gruppo di fuoco, Giuseppe Lucchese, boss di Brancaccio, e Raffaele Ganci, capomafia del quartiere Noce.
Ricostruito il delitto sono ancora molti i misteri in particolare quelli che riguardano i mandanti occulti, cioè coloro che “ispirarono” Cosa Nostra. A tal proposito vale la pena ricordare l'intercettazione ambientale dove il boss Giuseppe Guttadauro, uomo di fiducia del superlatitante Bernardo Provenzano e in quel momento reggente del mandamento di Brancaccio, mentre parla con Salvatore Aragona, anche lui medico e mafioso, dichiarava: "Salvatore… ma tu partici dall’ottantadue, invece… ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare a dalla Chiesa… andiamo parliamo chiaro…”. “E che perché glielo dovevamo fare qua questo favore…”. Ad intercettare le parole del boss, nel 2001, sono i magistrati di Palermo coordinati dal pm Nino Di Matteo, che indagano sull’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento aggravato alla mafia.
Rileggendo quelle parole una domanda è spontanea: a chi doveva essere fatto questo favore?
Lo stesso Francesco Paolo Anzelmo aveva dichiarato che quell'eccidio non era stato determinato dalla guerra di mafia, ma era “una cosa che era restata fuori” e successivamente anche i collaboratori di giustizia Tullio Cannella e Gioacchino Pennino fornirono ulteriori spunti. Il primo, vicino a Pino Greco Scarpuzzedda, che si sarebbe lamentato con lui per avere dovuto organizzare il delitto (“Stu omicidio dalla Chiesa non ci voleva... Ci vorranno minimo dieci anni per riprendere bene la barca”); mentre il secondo aveva parlato di convergenza di interessi esterni a Cosa Nostra. Una pista seguita a suo tempo anche dai giudici del primo maxiprocesso. Tanto che gli stessi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino parlavano proprio di “convergenza di interessi tra Cosa Nostra e settori politici ed economici”.
Certo è che dalla Chiesa viene ucciso appena cento giorni dopo il suo arrivo a Palermo in veste di Prefetto a cui erano stati promessi dal ministro Rognoni “poteri straordinari”. “Poteri” che non gli furono mai “concretamente” assegnati. Quel che avrebbe fatto con questi “poteri” dalla Chiesa lo aveva detto a Giulio Andreotti, poco prima di partire per la Sicilia: “Non avrò alcun riguardo per la parte inquinata della sua corrente”. Un'affermazione che fece addirittura “sbiancare” il Sette volte Premier. Ma il generale, che aveva già combattuto contro il Terrorismo Rosso, non si sarebbe certo fermato a questo. Avrebbe fatto il suo dovere contro Cosa nostra, indagando affondo sui legami che l’organizzazione criminale stava portando avanti con gli altri segmenti del potere, quello della politica, dell’economia fino ad arrivare ai segmenti deviati.
Per questo è stato fermato. Nella stessa sentenza di condanna dei boss è scritto che “si può, senz'altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d'ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all'interno delle stesse istituzioni, all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.
Ed oggi è su questo fronte che si deve tornare ad investigare. Dopo 36 anni il volto dei mandanti di quel delitto, così come quello delle stragi del 1992 e del 1993, non è ancora stato svelato e in un Paese che vuole dirsi democratico non è accettabile. Gravi sono, inoltre, i pezzi mancanti con la scomparsa dei documenti dalla cassaforte e dalla valigetta del generale su cui sta indagando la Procura di Palermo. E' noto che qualcuno entrò nell’abitazione del prefetto a Villa Pajno nel corso della notte fra il 3 e il 4 settembre 1982, riuscendo a svuotare la cassaforte che lì era presente. La mattina del 4 settembre i familiari di dalla Chiesa cercarono la chiave per aprire quella cassaforte ma senza successo. La chiave ricomparve solo il pomeriggio dell'11 settembre, nel cassettino di un segretario. Quando la cassaforte fu aperta, però, dentro non vi era più nulla a parte una scatola (vuota a sua volta). E cosa dire della valigia del generale, ritrovata nel 2013 nei sotterranei del tribunale di Palermo? Al suo interno non vi erano documenti anche se nel verbale di sopralluogo della polizia scientifica, conservato nel fascicolo giudiziario sulla strage di via Carini, viene certificato che poco dopo le 21.30 del 3 settembre 1982 Carlo Alberto dalla Chiesa (già morto da una quindicina di minuti dentro la sua auto) teneva tra le gambe una borsa piena di carte.
Che fine hanno fatto quei documenti? Chi li ha presi? Chi li custodisce? Cosa aveva scoperto il generale Carlo Alberto dalla Chiesa? La sua scomparsa ha lasciato un vuoto grande all'interno delle nostre Istituzioni. Lui che, sì, può essere definito come un vero Padre della Patria.
Foto di copertina © Ansa
Ricordare Dalla Chiesa, padre della Patria, alla ricerca dei mandanti esterni
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