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napolitano-g-testimone-processodi Giorgio Bongiovanni - 8 ottobre 2014
In ricordo della storica serie tv sugli anni di piombo scritta e condotta per la Rai dal grande giornalista Sergio Zavoli. Ora una nuova notte della Repubblica sembra voler scendere sulla lotta alla mafia.
Nel nostro bel Paese non vige soltanto il dogma della fede cattolica, che conferisce al Santo Padre l’infallibilità e l’immunità spirituale (da noi non condiviso). Abbiamo infatti “scoperto” di avere un Parlamento e un Senato tutt’altro che laici, votati ad una linea di stampo religioso estremista. Di avere una politica e una stampa prone ai piedi di un Presidente della Repubblica elevato al di sopra dei più grandi re intoccabili, quasi come un Papa. Papa Giorgio, appunto.

Come mai assistiamo ad un attacco forsennato contro qualsiasi decisione o parere della Procura di Palermo che tocchi Napolitano? I partiti politici dovrebbero, al contrario, gridare allo scandalo perché un Presidente della Repubblica chieda la distruzione delle conversazioni con Nicola Mancino, all’interno delle quali probabilmente non parlava troppo bene di qualche pm della Procura di Palermo. Dovrebbero protestare a gran voce, dato che ancora Napolitano non spiega perché il consulente Loris D’Ambrosio, poco prima di morire, abbia ritenuto di inviare al Capo dello Stato una lettera dal sapore quasi testamentale, in cui si lamentava “di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi".
Con la speranza che finalmente Napolitano renda conto di ciò ai pubblici ministeri di Palermo, non si può fare finta di niente di fronte alle reazioni di chi grida sì allo scandalo, ma in riferimento alla richiesta di ammissione dei boss Riina e Bagarella – imputati al processo trattativa – all’udienza del 28 ottobre dove Napolitano è chiamato a testimoniare. “Colpo di teatro incomprensibile e dannoso” (Pino Pisicchio, gruppo Misto alla Camera); “Paese allo sfascio, al rovescio, senza più regole e buon senso” (Manuela Repetti, FI); “Stavolta si è passato il segno” (Roberto Speranza, PD); “Parere che stupisce e non mi spiego” (Anna Finocchiaro, PD); “Incomprensibile” (Luigi Zanda, PD); “Grave caduta di stile” (Federico Gelli ed Ernesto Magorno, PD); “Valutazioni imperscrutabili” (Gaetano Quagliariello, NCD); “Autentica provocazione” (Fabrizio Cicchitto, NCD).
Qui lo scandalo è che quel PD, oggi zerbino dei piedi di Berlusconi, all’epoca di Cossiga Presidente della Repubblica – quando era ancora PDS – chiese e quasi ottenne l’impeachment per molto, molto meno (era il 1991 e Cossiga veniva accusato di attentato alla Costituzione per aver tentato di interferire illegalmente nelle attività degli organi legislativo, esecutivo e giudiziario). Nessuno, nemmeno dal PD, ha invece mosso un dito di fronte ad un Capo dello Stato che sembra abbia tutta l’intenzione di non appoggiare la ricerca della verità sul patto tra Stato e mafia negli anni ’92-’93, costata 21 morti ammazzati (tra cui i giudici Falcone e Borsellino) e 117 feriti. Che non ha proferito una sola parola sulle minacce di morte ricevute dal pm Nino Di Matteo da parte di Totò Riina. Ma quando si tratta di Napolitano, si sa, l’unica legge che vale è il dogma della sua intoccabilità. E la nostra Repubblica, in questo, non ha nulla da invidiare allo Stato del Vaticano.
Il Presidente del Senato Pietro Grasso, quando è stato chiamato a testimoniare, ha rinunciato al diritto di essere interrogato in loco e si è presentato alle porte del Tribunale di Palermo per rispondere alle domande dei pm e degli avvocati. Lo faccia anche lei, Presidente Napolitano. Sarebbe un gran bell’esempio per l’Italia ed eviterebbe così di essere dipinto come il garante della trattativa Stato-mafia.

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