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Categoria: Inchieste
Editore: Aliberti editore
Pagine: 189
Prezzo: € 16,00
ISBN: 9788874249299
Anno: 2012

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Recensione

Ero nel mio studio e mia moglie era al piano di sopra. Quella mattina avevo sentito al telefono mia madre che mi aveva detto che Paolo sarebbe passato a prenderla per portarla dal cardiologo, un caro amico di mio fratello, Pietro Di Pasquale.
   Mia mamma, oltre a quella con me, ha rimosso anche la chiamata con Paolo, quella telefonata in cui lei gli aveva chiesto l’orario in cui sarebbe passato a prenderla. Forse si sentiva in colpa o causa di qualcosa, per lei il pensiero di essere ascoltata dai mafiosi e di aver dato qualche “indizio” che poteva aver facilitato la strage era terribile. Improvvisamente sentii la voce di mia moglie che dal piano di sopra mi diceva con tono concitato: “Corri c’è stato un attentato a Palermo!”. Non disse altro e io non chiesi altro, da cinquantasette giorni sapevo che sarebbe successo. Non scambiammo più una parola in quei minuti interminabili, rimanendo immobili davanti alla televisione in attesa di notizie. Ma erano informazioni parziali, frammentarie, contraddittorie. (...) Non so per quante ore rimasi convinto che mio fratello si fosse salvato; (...) pensavo che la sua blindata lo avesse protetto dalla bomba. Mi ripetevo a bassa voce: “Dai Paolo, dai che anche stavolta ce l’hai fatta, li hai fottuti ancora”. Quando ebbi la certezza che Paolo era stato in qualche modo coinvolto, corsi alla stazione dei carabinieri di Arese, convinto che, attraverso i loro canali privilegiati, potessero darmi informazioni più sicure e attendibili di quelle che arrivavano dalla televisione, che potessero in qualche maniera aiutarmi a raggiungere subito Palermo (...) Quando arrivai lì mi resi conto che non sapevano un bel nulla, nemmeno dell’esplosione. (...)
   Rendendomi conto che da parte loro non mi sarebbe potuto arrivare nessun aiuto, neanche a livello di informazione, uscii e corsi di nuovo a casa. Cominciai a telefonare a Palermo, a tutti i numeri che avevo, ma non rispondeva nessuno. Tentai di telefonare anche a Paolo, ma il suo telefono era ovviamente irraggiungibile; quel telefono di cui, nella sua borsa, fu ritrovata quella batteria ausiliaria bruciacchiata che oggi possiede Gioacchino Genchi. Quando Gioacchino nel corso di un evento la tirò fuori a sorpresa, e la vidi per la prima volta, mi sentii quasi mancare, era come un pezzo di mio fratello, era qualcosa di Paolo.
   Chiamai il centralino dell’Alitalia chiedendo concitatamente un posto sul primo volo disponibile per Palermo. “Come si chiama?” mi chiese la signorina del call center. “Borsellino”. Credo che dalla mia agitazione avesse capito che ero un parente del giudice che aveva appena subìto l’attentato, ma non mi chiese nulla. “Adesso vedo di trovarglielo subito”. Dopo dieci minuti che mi sembrarono interminabili, mi trovò un posto sul primo volo. Gli aerei erano pieni perché tutti i giornalisti stavano cercando di andare da Milano a Palermo, per la seconda volta in cinquantasette giorni. Ancora oggi non ricordo quando ebbi la certezza che Paolo fosse stato ucciso nella strage. So che la conferma me la diede mia madre. Aveva tentato di chiamarmi subito dall’ospedale in cui l’aveva portata il pompiere che l’aveva presa in braccio, alla base delle scale dove era arrivata da sola quando l’esplosione aveva sventrato anche l’appartamento di mia sorella, ma non c’era riuscita. Solo in un secondo tempo riuscì a parlarmi: “Tuo fratello è morto”. Mi disse solo questo. Non piangeva, ricordo benissimo il suo tono: “Toto, tuo fratello è morto”. (...)
   Arrivai in via D’Amelio con un taxi, in tarda notte. Tutta la via era circondata da un imponente cordone di polizia che non mi lasciò passare: “Sono il fratello del giudice” gli dissi con una calma che mi fece paura “mi lasci passare”. Prima di lasciarmi entrare in quel teatro di morte mi chiesero i documenti. Ormai non c’era più nessuno. Non c’era mio fratello, non c’erano i resti dei suoi ragazzi, o quantomeno non li vedevo. Rimasi diverse ore fermo, immobile, a guardare senza nemmeno rendermi conto di ciò che osservavo. Non cercavo particolari, non li notavo, nonostante abbia visto successivamente, nei video dei vigili del fuoco, un braccio ancora in mezzo alle macerie il giorno dopo, un braccio che per forza i miei occhi avevano incrociato e che avevano deciso di ignorare perché il mio cervello, forse, non avrebbe sopportato. Guardavo il tutto, i palazzi diroccati, le finestre sfondate, osservavo la tragedia nel suo insieme, non la singola pietra, il singolo balcone a penzoloni. Tutto quello era mio fratello morto e basta, era una cosa troppo grande per poterla guardare, anche solo per poterla pensare. Rimasi da solo, in quel posto devastato, ma guardavo al prima, a Paolo vivo, cercavo freneticamente di ricordarmi ogni cosa che potevo. Mi rivedevo nel passato con mio fratello, non riuscivo a vedere che cosa c’era lì. Ogni volta che torno in via D’Amelio per un momento la rivedo come quel 19 luglio, sono scene che chi non ha visto non può nemmeno immaginare. Quella notte toccavo con mano il massimo della malvagità di cui l’essere umano era capace. Non ero stato a Capaci, ma guardando quel teatro di morte riuscivo a capire cosa era stato. Detriti di auto, targhe, blocchi di pietra. Paolo quando andava da mia madre non lo scriveva sull’agenda. Faceva semplicemente un disegno: un cerchio sul foglio con una freccia verso il centro, come per rappresentare il ritorno al nido, all’origine, il punto da dove tutto parte, ma dove prima o poi torna. Paolo in via D’Amelio abbandonava tutte le difese, si rilassava, chi poteva colpirlo a casa della mamma? Come se sentisse la protezione del suo abbraccio, un calore che lo avrebbe protetto più di ogni scorta, più di ogni blindata. Ora quel nido era una scena, di morte, di guerra. C’ero io, c’erano le macerie, c’era una Palermo sudata e sconvolta… e non c’era più mio fratello, non c’era più Paolo
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