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"Non so quando rubare smise di essere un passatempo per diventare una professione. Sarà perché non mi pare di aver fatto altro nella vita. Certo, non provenivo da una famiglia ricca. Ma non è questo il motivo per cui cominciai. Ho cominciato e basta. C'è chi nasce per fare lo sbirro, chi lo scienziato, chi per diventare Madre Teresa di Calcutta. Io sono nato ladro." Per dare un senso al proprio presente, ogni uomo vive anche del proprio passato. Un ergastolano solo di quello. Renato Vallanzasca deve al suo passato un futuro sbarrato da un “fine pena: mai”. Renato Vallanzasca ha rapinato, ha ucciso. “Per pudore” nei confronti delle sue vittime, spiega, non ha mai chiesto perdono. “Per lealtà con se stesso” e con il suo personale codice d’onore, ha sempre rifiutato di vestire i panni del collaboratore di giustizia. A cinquantanove anni, trentotto dei quali trascorsi in cella, dopo una precoce e sconcertante carriera criminale, il lungo braccio di ferro con la giustizia fra fughe, arresti, turbolente detenzioni in diversi penitenziari italiani e clamorose evasioni, Vallanzasca continua a scontare la sua pena nel carcere di Opera a Milano. Nel Fiore del male, il famigerato e stravagante bandito ha accettato di incontrare Carlo Bonini per raccontare in prima persona la propria vita, per frugare nel secchio della memoria. Senza facili ipocrisie, senza repentine e sospette conversioni. Il ritratto che ne scaturisce è quello di un uomo che, dopo aver contribuito a costruirlo, accetta di fare i conti con il proprio mito negativo. Non per rinnegarlo, ma per accettarne la sconfitta. È una storia violenta, quella di Renato Vallanzasca, una storia non priva di sorprese e inediti retroscena, una storia di cui, per la prima volta, vengono messe a nudo le radici.