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Il gioco grande e Cosa Nostra

di Giorgio Bongiovanni   

La tregua è purtroppo frequentemente interrotta da assassinii di mafiosi di rango, segno che la resa dei conti non è finita e, soprattutto, da omicidi dimostrativi che hanno creato notevole allarme sociale; si pensi all’omicidio di Roberto Parisi avvenuto nel febbraio 1985 e agli omicidi dell’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco e dell’agente di polizia Natale Mondo, consumati appena qualche mese addietro. Gli omicidi di Insalaco e di Parisi costituiscono l’eloquente conferma che gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e occulti centri di potere, costituiscono tuttora nodi irrisolti, con la conseguenza che, fino a quando non sarà fatta luce su moventi e su mandanti dei nuovi come dei vecchi «omicidi eccellenti», non si potranno fare molti passi avanti.  (Giovanni Falcone, 1988) «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande», diceva Giovanni Falcone riferendosi all’intrecciarsi criminale dei poteri politico, finanziario e massonico. Paolo Borsellino allo stesso modo sosteneva che per sconfiggere la mafia occorre riuscire a sciogliere il nodo politico-mafioso. Attuali più che mai le parole dei due magistrati simbolo della lotta alla mafia che forniscono la chiave di interpretazione necessaria per comprendere perché a nove anni dalle stragi ancora non solo non si è debellata questa piaga endemica del nostro Paese, ma si ravvisano tutti i segnali per presupporre che il quadro d’insieme sia persino peggiore rispetto a quello in cui avevano operato i due giudici. Affermazione forse apparentemente non condivisibile; i fatti tuttavia lasciano spazio a ben pochi dubbi. Cosa Nostra e ‘Ndrangheta in particolare, hanno oggigiorno raggiunto una potenza tale da costituire un serio rischio per la democrazia, grazie soprattutto a quelle alleanze e compromessi che solo la politica può consentire e agevolare. E’ attraverso il politico colluso che si può beneficiare di favori, di lasciti in denaro, di conoscenze, di appalti ed entrare in contatto con tutti gli altri ambienti che nel corso della storia si sono dimostrati essere corsie preferenziali per il rafforzarsi dei legami che consentono alle maggiori organizzazioni criminali di disporre di un potere contrattuale o ricattatorio immenso. La massoneria deviata svolge in questo senso il ruolo di trait d’union permettendo la collusione tra mafiosi, politici, magistrati, finanzieri e professionisti di ogni genere i cui comuni scopi sono l’arricchimento e la detenzione del potere. Cosa Nostra e le altre mafie non sarebbero altro che comuni associazioni a delinquere se non godessero di questi preziosissimi agganci garantiti dalla politica. Proprio in vista del prossimo scontro elettorale, i cui toni, anche in materia di mafia, si stanno facendo sempre più accesi, abbiamo voluto preparare un monografico specificatamente dedicato all’evoluzione di questo storico compromesso a cui l’Italia sembra non volere e non potere più rinunciare. Persino Mussolini, come ci ricorda il magistrale saggio del procuratore aggiunto di Palermo Roberto Scarpinato, che con il prefetto Mori aveva esercitato una durissima repressione dei clan siciliani, ad un certo punto si vede costretto a richiamare all’ordine il suo inviato perché aveva pesantemente toccato il legame con la politica (caso Cucco). Anche il regime più totalitario d’Italia, il fascismo, intollerante a qualsiasi tipo di ingerenza in alcun territorio della nazione, retrocede per non perdere i vantaggi che derivano da questa alleanza.  Sostanzialmente il sodalizio tra mafia e politica ha mantenuto dal suo esordio, più di cent’anni fa, fino ad oggi un andamento uguale e costante che mai ha subito impennate od inflessioni tali da potere essere compromesso. (vedi Lo Forte pag. 24) Se da una parte è vero che con l’assassinio di Salvo Lima e di  Ignazio Salvo nel 1992, si è verificata una pericolosa rottura degli equilibri, dall’altra i vertici spietati di Cosa Nostra non hanno perso tempo, sostituendo velocemente i vecchi garanti con personaggi nuovi che però, in cambio, hanno chiesto loro l’eliminazione delle due memorie storiche, di quei due uomini che potevano fermarli: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Non solo vendetta contro due magistrati capaci e incorruttibili, ma un delitto che propriamente si può definire politico; due stragi politico-mafiose.  E’ per lo stesso motivo che rifacendosi al testo di Nicola Tranfaglia relativo alla motivazione della sentenza di assoluzione del senatore Giulio Andreotti si comprende come sia stato impossibile emettere un giudizio di natura penale. Di fatto però sono stati proprio giudici ad emettere una condanna morale e politica sia con la sentenza dell’omicidio Lima che con lo stesso documento di assoluzione per insufficienza di prove.  Il senatore Giulio Andreotti ha sminuito l’importanza dell’incontro avuto con il boss latitante Andrea Mangiaracina che in quel tempo, siamo nel 1985, quindi non molti anni fa, era uno dei pupilli di Riina per la provincia di Trapani. Quindi l’incontro tra Riina e Andreotti è comunque avvenuto attraverso Mangiaracina. Stiamo parlando di un capo mafia spietato e ricchissimo per cui è proprio difficile credere che si stesse raccomandando qualche banale favore con il senatore.  Ma condannare l’uomo che ha rappresentato il nostro Paese in varie vesti per cinquanta anni significa spezzare per sempre quel costante e immutato filo di collegamento che regola un rapporto che ormai potremmo addirittura definire interdipendenza. A ragione quindi si può indicare il presente periodo come il più buio nella lotta alla mafia. Nel biennio ‘92-’93 di fatto Cosa Nostra ha reagito alla sua debolezza politica con la ferocia delle bombe, nessuno più stava curando i suoi affari nelle stanze del potere grazie all’azione di Falcone, Borsellino e pochi altri. Lo Stato si doveva svegliare.  Oggi Cosa Nostra tace, ma quanto sono potenti i suoi riferimenti istituzionali? Provenzano nel 2001 vede compiuta la sua profezia. Secondo le dichiarazioni del confidente dei ROS Luigi Ilardo (assassinato proprio mentre decideva di collaborare formalmente con la giustizia vedi n°11 marzo 2001), il vecchio padrino nell’ottobre del 1995 rassicurava i capi mandamento chiedendo loro di portare pazienza perché entro sette, otto anni avrebbe avuto quelle garanzie necessarie per riportare Cosa Nostra in perfetto equilibrio economico, politico e militare.  Il suo tempo è trascorso. Che elementi di valutazione possediamo oggi?          Con la consueta relazione finale il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Giuseppe Lumia ha terminato il suo mandato per la XIII legislatura. Le conclusioni da lui tratte non sono altro che la conferma di quanto già aveva decretato la prima Commissione antimafia presieduta dall’allora presidente Violante sul rapporto mafia e politica. Oggi come nel 1993 il «gioco grande» si regge sul «nodo politico».             L’onorevole Matacena candidato di Forza Italia per la Calabria si vendica della sua esclusione delle candidature del partito rinfacciando al leader del Polo di essersi comportato come un vero amico quando a Caltanissetta ha «testimoniato contro la procura di Palermo» su «richiesta di Berlusconi».          La delegittimazione dei magistrati. Alla procura di Reggio Calabria, come a quelle siciliane, non solo i procuratori in prima linea si sono visti ridurre la scorta più che mai necessaria dopo la dura azione di contrasto da loro attuata, nonostante la scarsità di mezzi a disposizione, a danno delle cosche mafiose, ma subiscono una continua e sistematica campagna di discredito. A seconda della provenienza politica del loro indagato vengono attaccati e accusati di favorire la fazione avversaria. E’ la situazione in cui si è venuto a trovare il procuratore aggiunto Boemi insieme a tutto il suo ufficio durante le indagini a carico dell’onorevole di Forza Italia Matacena e del sindaco diessino Falcomatà. Non è questa certo una novità se si pensa agli attacchi martellanti ai danni della procura di Palermo diretta da Giancarlo Caselli negli anni successivi alle stragi.           E’ stata richiesta dall’ufficio della procura di Caltanissetta l’archiviazione delle indagini sui cosiddetti mandanti esterni delle stragi che vedevano come indiziati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Tra le  motivazioni addotte, seppur discutibili, una presunta discrasia tra le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca. Mi domando se il procuratore capo Tinebra e i suoi colleghi Giordano e Leopardi abbiano letto con attenzione le dichiarazioni, tutte le dichiarazione, rese dal Brusca nell’ambito dei vari processi, per le stragi e non. Se così fosse si sarebbero certo resi conto che le affermazioni di entrambi i «pentiti» sono assolutamente complementari. E’ vero che Brusca rivela di non aver mai sentito Salvatore Riina riferirsi a Berlusconi e Dell’Utri come quelle persone importanti «da appoggiare perché è un bene per tutta Cosa Nostra», come invece sostiene Cancemi, ma indica nei due parlamentari di Forza Italia i due interlocutori con cui trattare all’indomani dell’arresto di Riina per ottenere benefici legislativi. A Vittorio Mangano, spiega Brusca, nominato da lui stesso e Leoluca Bagarella reggente del mandamento di Porta Nuova nel ‘94-’95, viene chiesto se l’intervista a Paolo Borsellino pubblicata su L’Espresso corrispondesse al vero. La risposta affermativa del Mangano, e la conferma di un suo rapporto più o meno stretto con i due politici, avrebbe aperto le trattative. E’ fin troppo evidente che non esiste alcuna contraddizione. Ciò che però è ben più grave è la pericolosa esposizione a cui è stato costretto il sostituto procuratore Luca Tescaroli, fino a pochi mesi fa titolare delle indagini in questione. Egli si è trovato, infatti, obbligato a dover precisare su Il Corriere della Sera le inesattezze riportate dallo stesso quotidiano il giorno precedente ed esprimere pubblicamente la sua amarezza per essere stato al centro di una violazione del segreto di ufficio. (vedi art. pag.58) I magistrati quindi sempre più isolati, abbandonati e allo scoperto, «con le armi spuntate». Un esempio per tutti, la recente disposizione di legge in materia di collaboratori di giustizia si è rivelata talmente inadeguata da spingere il capo della procura più esposta d’Italia, Pietro Grasso a dichiarare alla stampa: “Se fossi mafioso non mi pentirei”. Nessuna reazione in sede politica. Assoluto silenzio.           Il corporativismo politico all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura e delle varie correnti a cui fanno riferimento i magistrati non fa altro che prestarsi a questo continuo gioco al massacro. E’ stato infatti motivo di forte polemica il recente libro scritto dai giudici Giancarlo Caselli e Antonio Ingroia L’eredità scomoda (Feltrinelli) in cui i due autori, protagonisti della difficile stagione antimafia posteriore alle stragi, hanno ricostruito sette anni di durissimo contrasto a Cosa Nostra tra mille attacchi e campagne di discredito.          Nel mese di novembre scorso... è stato rinvenuto un ordigno inesploso a Milano. Tante ipotesi, congetture e poi non se ne è saputo più niente. Sia consentito però il parallelo con il proiettile ritrovato nel giardino dei Boboli a Firenze del 1992 che ha purtroppo però preannunciato la stagione delle stragi contro il patrimonio artistico italiano verificatesi poi nel 1993. Quale segnale fosse quello di Milano nessuno se lo domanda più. Speriamo di non dovercelo chiedere tra quattro o cinque anni dopo aver pianto innocenti sotto le macerie. Di fatto Cosa Nostra non cessa di comunicare con lo Stato. Il rapimento della bimba ad Alcamo ne è un’ulteriore conferma. Il nonno chiede scusa alla mafia, metafora dell’assoluto controllo del territorio che vige tutt’oggi in Sicilia.          Pronte le candidature per i vari collegi elettorali. Fuori dalle liste del polo i vari nemici di Cosa Nostra, quelli sulla cui testa pende la condanna a morte per tradimento come Martelli, Mannino e altri, e chi ha cercato in qualche modo di contrastare la mafia. La Cosa Nostra di Provenzano quindi è approdata nel terzo millennio completamente ristabilita, economicamente (da capogiro le stime della confcommercio), militarmente (il solo Matteo Messina Denaro, indicato come il possibile futuro capo, conta su un esercito di mille uomini nel trapanese), e politicamente per tutti gli indizi che abbiamo fino ad ora raccolto. Non importa quale schieramento vincerà le prossime elezioni, il patto tra mafia e politica è salvo. Le menti storiche della criminalità organizzata in Italia, Provenzano, Morabito detto «tiradritto’ boss della ‘Ndrangheta, e altri hanno avuto, fino ad oggi, la loro libertà garantita, e non vi sono che brevi cenni alla lotta alle mafie nei programmi politici delle coalizioni maggiori. Già diversa in positivo la situazione nelle linee programmatiche dei partiti minori. Democrazia in vendita in un Paese che si ferma travolto dalla bufera di un programma satirico. Non rimangono che i ragazzi, quelli che non si fanno rubare l’ideale dalla campagna martellante di sottocultura propinata dai media, quelli che hanno voglia di combattere per la legalità, quelli che costituiranno la società civile che nei prossimi dieci, dodici anni sarà la nuova resistenza.  Non rimangono che quei magistrati in trincea, e sono sicuro che sarò tacciato di essere fazioso e ci tengo a confermarlo per primo, delle procure più esposte che con coerenza, coraggio e totale dedizione, non demordono, e si battono per liberare questo Stato che, come disse qualcuno, «dopo 150 anni preferisce accordarsi con la mafia piuttosto che combatterla... Cambierà qualcosa o da Cosa continuerà a nascere Cosa?»

Giorgio Bongiovanni 

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