22 febbraio 2012
Roma. Serrande abbassate, macchinari ricoperti di polvere, faldoni di carte caduti a terra e mai raccolti. Sono 1.516 le aziende confiscate alla mafia.
Di queste, però, solo 176 sono attive, poco più dell'11%. L'89% è in 'stato vegetativò, ha chiuso i battenti o rischia di farlo a stretto giro. I numeri aggiornati al gennaio 2012, forniti all'Adnkronos dall'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc), fotografano una realtà ferma: migliaia di potenziali posti di lavoro impaludati nei lacci e nei lacciuoli di un sistema che fatica a rimettersi in carreggiata dopo essere uscito dal tunnel della criminalità organizzata. Delle 460 aziende ormai fuori dalla gestione della Anbsc solo 45 sono state vendute, ben 273 sono state cancellate dal Rea, 128 liquidate e 14 hanno ottenuto la revoca della confisca. Ci sono poi altre trecentosettantadue società, precisano dall'Agenzia, la cui situazione è in corso di aggiornamento, ovvero si sta lavorando per valutarne lo stato. La distribuzione geografica vede primeggiare la Sicilia, dove risiede il 37% delle aziende sottratte alla mafia, seguono Campania e Calabria, ma anche la Lombardia figura tra le prime della lista. Ristoranti, bar, imprese edili, palestre, aziende di informatica e di servizi tra le tante attività finite sotto sigillo. Nate come aziende di copertura, in gran parte utilizzate per riciclare denaro sporco e confiscate «spesso quando sono ormai scatole nuove - spiegano dall'Agenzia - Senza contare che, una volta scattati i sigilli, vengono a mancare le commesse e le banche chiudono i rubinetti». E anche su questo punto i numeri parlano chiaro. «Il 60% dei beni ancora da destinare ai Comuni è bloccato, inutilizzabile perchè strozzato da ipoteche bancarie», spiega all'Adnkronos Davide Pati, responsabile nazionale 'Liberà per i beni confiscati alle mafie. I numeri dell'Anbsc «certificano il fallimento dello Stato - secondo Pati - e sostenerlo non è un'esagerazione. Spesso queste società, quando erano in mano alla mafia, alla 'ndrangheta, alla camorra, alla sacra corona unita, inquinavano l'economia locale influenzando il mercato: se non si crea una rete per farle sopravvivere, per trainarle sul binario della legalità, si lasciano vincere le mafie. È una sfida che non possiamo perdere». Sulle aziende confiscate «bisogna investire - rimarca il responsabile di 'Liberà - mentre non ci sono fondi pubblici per aiutare le cooperative a ripartire o per farne nascere di nuove dalla gestione dei beni confiscati. Anche per questo noi chiediamo al governo Monti, che ha finora mostrato grande sensibilità, di devolvere parte delle risorse che vengono sottratte ai mafiosi e che confluiscono nel Fondo unico giustizia, nonchè parte delle risorse che provengono dai fondi europei regionali, ai progetti per supportare le cooperative nate o da avviare e non perdere potenziali posti di lavoro, tanto più preziosi in tempo di crisi». Tanto più considerando che ,«con il passaggio dalla gestione mafiosa a quella lecita - spiega all'Adnkronos Gaetano Paci, magistrato della direzione Distrettuale antimafia e sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Palermo - queste aziende perdono il sostegno, anche di natura illecita, che ne consentiva la sopravvivenza e l'accesso al credito, bancario e non». «E se le banche smettono di concedere mutui e finanziamenti - rimarca Pati, il responsabile di 'Liberà - finiscono per tagliare le gambe alle imprese confiscate: bisogna intervenire per agevolare l'accesso al credito, questa deve essere una priorità». Un esempio su tutti? «Il famoso Caffè de Paris in via Veneto, Roma - denuncia Pati - Sequestrato alla cosca Alvaro, è tornato a riaprire i battenti ma non ha più liquidità nemmeno per acquistare i prodotti 'Libera Terrà, nati dai territori confiscati, perchè le banche hanno tagliato tutti i fidi». La strada, per chi tenta di rimettersi in piedi, è tutta in salita e spesso irta di ostacoli. Anche la Calcestruzzo Ericina, nel trapanese, confiscata alla mafia nel 2000 e tornata a vivere grazie a una cooperativa messa in piedi dai suoi dipendenti non naviga in buone acque «ma rischia di chiudere i battenti», avverte Pati. A far calare le commesse «anche il boicottaggio - ammettono alcune fonti della Regione Sicilia - operato dalle aziende che si fornivano in passato dalla Ericina». «Ma riportare in vita queste attività - sottolinea il sostituto procuratore Paci - non deve essere un'impresa disperata. Del resto gli esempi virtuosi, di realtà che alla fine l'hanno spuntata, non mancano». Le istituzioni, però, devono scendere in campo e darsi da fare, «proprio a partire dall'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata: ha solo trenta funzionari - sottolinea Pati rivolgendo un altro appello all'esecutivo - è a corto di risorse, anche per il personale. Così rischia di implodere, va aiutata e potenziata». «La fiducia nell'esecutivo Monti c'è - assicura il responsabile di 'Liberà - anche se nel dl Semplificazioni approvato dal Cdm c'è una svista, un errore sui beni confiscati alla malavita». Il provvedimento, in un passaggio, prevede infatti che 'i beni immobili confiscati alla criminalità organizzata che hanno caratteristiche tali da consentirne un uso agevole per scopi turistici possano essere dati in concessione a cooperative di giovani di età non superiore a 35 annì. «Ma per tali beni - spiega Pati - viene previsto il pagamento di un affitto, mentre la legge vigente prevede il comodato d'uso gratuito. Insomma, i beni vengono concessi ai giovani a titolo oneroso. L'articolo entra in contraddizione con quanto previsto dal codice antimafia e ormai da sedici anni di applicazione della legge 109/96». Un passo indietro, dunque, in una misura che non convince nemmeno il sostituto procuratore di Palermo. «Difficile individuare beni a scopo turistici - dice - è un'indicazione, quella contenuta nel provvedimento, che non trova riscontro nella realtà: di aziende così non ce ne sono». Per questo, «così com'è stata fatta, rischia di restare una norma 'slogan' e nient'altro».
Adnkronos