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di Giovanni Bianconi - 16 ottobre 2012
«Noi abbiamo fatto sempre e solo il nostro dovere nel rispetto delle regole, perciò continuiamo a essere sereni», dice il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia a proposito dell'indagine sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi. Lui e i suoi colleghi l'hanno sostenuto fin da quando la conclusione dell'inchiesta ha prodotto le prime polemiche istituzionali. E lo ribadiscono ora, alla luce del carteggio tra il presidente Napolitano e il suo consigliere giuridico Loris D'Ambrosio, successivo alle prime indiscrezioni sulle telefonate intercettate tra lo stesso D'Ambrosio e l'ex ministro Nicola Mancino.
«Abbiamo la coscienza a posto», ripete Ingroia. Eppure, tra chi attraverso un «esercizio distorto del proprio ruolo» ha inteso attaccare il magistrato che prestava servizio al Quirinale per colpire il capo dello Stato, Giorgio Napolitano ha additato (al fianco di politici e giornalisti) pure non meglio precisati «magistrati»; difficile non pensare ai pubblici ministeri di Palermo titolari dell'indagine della discordia. I quali, però, respingono ogni ipotetico addebito. «Ci siamo mossi per cercare la verità a 360 gradi, senza lasciare nulla di intentato e senza avere altri obiettivi», insiste amareggiato il sostituto procuratore Nino Di Matteo. E Ingroia, riferendosi anche al conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale contro il suo ufficio per il trattamento riservato alle intercettazioni in cui compare la voce del presidente, aggiunge: «Auspico che si ripristini il clima più sereno possibile, anche perché alla vigilia dell'udienza preliminare è opportuno garantire al giudice chiamato a decidere la massima tranquillità, senza condizionamenti di sorta».
Il capo della Procura, Francesco Messineo, preferisce astenersi da commenti: «Non è mia abitudine esprimere opinioni su sollecitazioni che non conosco compiutamente». Eppure, un passaggio della lettera del
consigliere D'Ambrosio a Napolitano diffusa ieri sembra prendere spunto proprio da alcune frasi di Messineo. Parlando dei «gravi contrasti» apparentemente insanabili tra inquirenti, di cui tutti erano al corrente, D'Ambrosio scriveva: «Mi ha turbato leggere nei resoconti di un'audizione all'Antimafia le dichiarazioni di chi ammette che della cosiddetta trattativa Stato-mafia uffici giudiziari danno interpretazioni diversificate e spesso confliggenti, ma che ciò è fisiologicamente irrimediabile». In effetti, davanti alla commissione parlamentare Messineo aveva spiegato: «Più volte in questa vicenda abbiamo constatato che procure diverse, che procedono parzialmente assieme, sono poi giunte a valutazioni finali diverse.
Trovo quindi perfettamente logica e assolutamente legittima la valutazione della Procura di Firenze che, sulla base delle notizie in suo possesso e di ciò che ritiene, è arrivata alla conclusione che la trattativa sul 41bis non ebbe incidenza. Noi riteniamo il contrario e io vi ho esposto i motivi».
Per D'Ambrosio proprio questo era il problema: il mancato coordinamento da parte della Procura nazionale antimafia che portava i vari uffici a conclusioni non solo differenti, ma in contrasto tra loro: «Come se fosse la stessa cosa trattare lo stesso soggetto da imputato o da testimone o parte offesa, da fonte attendibile o da pericoloso e interessato depistatore», scriveva a Napolitano con evidente riferimento, nell'ultima parte, alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, sulle quali s'era verificata una profonda spaccatura tra le Procure di Palermo e Caltanissetta. Con questi esempi il consigliere chiariva al capo dello Stato il tenore delle sue intercettazioni con Mancino, e l'obiettivo di favorire solo un lavoro congiunto ed efficace, non certo aspettative o richieste di chicchessia. Invece molte frasi venivano a suo giudizio distorte e interpretate «con cattiveria e inquietante malvagità», per stravolgerne il significato e darne tutt'altra lettura. È un'accusa di ieri che continua a risuonare oggi, ma anche da quest'ultima interpretazione i magistrati di Palermo si chiamano fuori. Ricordando che nei due interrogatori sostenuti da D'Ambrosio come testimone (integralmente e regolarmente fonoregistrati, uno dei quali incentrato su alcuni dialoghi intercettati tra lui e Mancino) tutto si svolse nella massima trasparenza e senza alcuna frizione.

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