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Alla Festa dell’Unità niente sconti per il segretario
di Mattia Feltri
E dire che sembravano vecchi semi infermi con la camicia rossa e il fazzoletto tricolore al collo, innocui nostalgici che avevano ingannato l’attesa con bicchierini di amaro, e buste di plastica in testa per timore della pioggia. Altroché, non è acqua che è piovuta, perché quelli dell’Associazione partigiani erano agguerriti come nelle migliori mitologie. Eccoli i veri monelli della serata, noncuranti delle raccomandazioni ecumeniche del moderatore, Gad Lerner. Hanno fischiato, hanno interrotto, hanno urlato, hanno invitato il presidente del Consiglio ad andare a casa, gli hanno buttato in faccia l’accusa di essere un gran bugiardo. Guarda un po’: ecco chi giocava in casa, non Matteo Renzi, che sarebbe il segretario del partito titolare della Festa, non i suoi sostenitori che le cronache annunciavano in arrivo a centinaia, convocati dal Pd per spuntarla nell’applausometro. Giocava in casa Carlo Smuraglia, ben al di sopra dei suoi novantatré anni, nessun timore, nessuna smania di imbonire l’avversario, nessuna piacioneria. E nonostante il bell’eloquio novecentesco, che talvolta suonava come Tito Schipa in discoteca, il presidente dei Partigiani ci ha dato dentro, non era serata da sconti, ha detto in faccia al dirimpettaio che la sua riforma fa orrore, stravolge lo spirito della Resistenza e dei padri costituenti. 

Lì avremmo giurato che Renzi avrebbe riproposto la fascinazione generazionale, utilizzata soltanto poche ore prima in televisione: voi avete fatto la storia, adesso lasciatela fare a noi (sintesi nostra un po’ enfatica). Niente, bassi bassi e schisci schisci perché siamo pur sempre a Bologna, la città dove la memoria, compresa quella più abbellita, non si annacqua. E nemmeno funzionano le ottime tattiche del fair play, che spingono il premier a zittire i suoi quando danno sulla voce a Smuraglia e anzi, basta un sussurro, una protesta da niente e Renzi dice no, non si fa così, rispetto per chi ha un’idea diversa dalla nostra ma a cui siamo accomunati dai valori fondanti. La curva antirenziana ha da ridire anche lì, si alzano buu, si inveisce in forma gutturale. Per chi è abituato alla solidità tetragona del partito - del partito che era, forse - una serata così ha avuto i toni della guerra intestina. E per la cronaca - anche se non doveva essere una partita da televoto - gli applausi al premier sono stati i più scroscianti, i più numerosi, i più compatti, ma era tutto il resto a lasciarci ad occhi sbarrati. Ci sono più diritti, dice Renzi, ed è una sommossa verbale. Il premier le ha provate tutte, le capacità non gli mancano, ma non era cosa. Da matti: neanche il richiamo antifascista ha funzionato in questa festa e in questa città che l’antifascismo se lo mangia a colazione. Volevo sentire qualche parola dall’Anpi, ha detto Renzi, quando il biografo di Giorgio Almirante ha scritto che sono un traditore che va messo al muro. Dove eravate, chiede Renzi. Ma nulla, non riesce ad agganciare le simpatie mancanti, signore su con gli anni saltellanno nervose, indossano t-shirt con la scritta «Costituzione» fatta a brillantini e urlano basta, vattene.

E che doveva succedere? Che Smuraglia, sempre che ne avesse bisogno, ha preso coraggio, si è fatto quasi sprezzante, ha ironizzato sul futuro del premier dopo la (eventuale) sconfitta, e come stessero andando le cose è stato chiaro quando Gad Lerner, col vento in poppa, ha citato Paolo Prodi (uno dei fratelli di Romano), e cioè la riforma come un «bitorzolo sulla Costituzione». E allora restiamo così, ha chiuso Renzi, con questa specie di enorme macchinario arrugginito che sono le istituzioni, se vi piace. Magari non sono la maggioranza, ma gli piace, eccome.

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