di Luigi Ciotti - 9 maggio 2013
Era il 9 maggio del 1993. Giovanni Paolo II, in visita in Sicilia, incontra i genitori di Rosario Livatino, giovane giudice assassinato da Cosa nostra. Poco dopo, dalla Valle dei Templi di Agrigento, sovvertendo il protocollo, chiamerà la mafia «una civiltà di morte» ed esorterà i mafiosi a convertirsi.
La reazione non si fa attendere. Il 27 luglio, la dinamite danneggia a Roma le chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro. Il 15 settembre viene assassinato don Pino Puglisi e pochi mesi dopo don Peppe Diana.
Quella stessa estate, i magistrati avevano raccolto le confessioni di un mafioso di primo livello, Francesco Marino Mannoia: «Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece Cosa nostra sta attaccando la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite».
Ricordare dopo vent’anni il discorso del Papa, significa allora essere capaci – come sacerdoti, come cristiani e come cittadini – d’interferire. Interferire denunciando le violenze e i soprusi. Interferire mostrando nelle scelte e nell’impegno che il Vangelo è incompatibile non solo con le mafie, ma con la corruzione, l’indifferenza, le disuguaglianze e le distruzioni di bene comune su cui le mafie edificano i loro imperi.
Se il discorso del Papa fu uno spartiacque, è perché d’allora non è stato più possibile giustificare silenzi, complicità, omissioni. La fede non può essere un salvacondotto. Non ci esonera dalle responsabilità sociali e civili, dal contribuire a costruire già in questa vita speranza e giustizia. Livatino che – amo credere – ispirò quel giorno l’accorata denuncia del Papa, aveva scritto su un quaderno: «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili».
Tratto da: famigliacristiana.it