Il verbale del pentito, Piersanti “era un uomo perbene”
di AMDuemila
A spingere affinchè Cosa nostra decidesse per l’eliminazione di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia ucciso il 6 gennaio 1980, sarebbe stata una “soffiata” proveniente dal magistrato della Procura di Palermo Vincenzo Pajno. A dirlo è stato il pentito Franco Di Carlo (si apprende da Il Fatto Quotidiano) in un verbale reso al legale Fabio Repici. L’ex boss di Altofonte, per “affidabilità” paragonato dai magistrati di Palermo allo storico pentito Tommaso Buscetta, ha raccontato che Pajno riferì a Nino Salvo (insieme al fratello Ignazio imprenditore e affiliato alla cosca mafiosa di Salemi) che a Roma Piersanti Mattarella aveva manifestato lamentele nei confronti di Vito Ciancimino (sindaco di Palermo tra il ’70 e il ’71, vicino ai corleonesi di Riina e Provenzano). Pajno, ha detto Di Carlo, “era onesto” e non sapeva dello stretto legame che i Salvo vantavano con Cosa nostra. La “soffiata”, tuttavia, avrebbe rappresentato la svolta che portò la mafia a decretare l’uccisione di Mattarella. E questo, si legge nei verbali, nonostante lo stesso Di Carlo avesse remato contro la sentenza di morte, arrivando fino ai capimafia Bernardo Brusca, Michele Greco e Nicola Buccellato, pur di impedirne l’attentato. Secondo il collaboratore l’allora Presidente della Regione “era un uomo perbene” e quando fu ucciso “provai un gran dolore”.
“Già nel ’78 - ha raccontato Di Carlo - Ciancimino si era lamentato con il boss Provenzano di alcuni avversari politici: così era partito l’assassinio di Michele Reina. Poi Ciancimino si era trovato in difficoltà anche per l’operato di Mattarella. E il presidente della Regione si era lamentato a Roma con qualche ministro”.
A Roma, Mattarella, ci andò nel ’79 per incontrare Virginio Rognoni, allora Ministro dell’Interno. Al suo ritorno, lo stesso giorno, disse al capo di gabinetto Maria Grazia Trizzino ciò che “non dirò né a Sergio né a mia moglie” riferendosi all’incontro con Rognoni e avvertendo: “A questo incontro è da ricollegare quanto di grave mi potrà accadere”. Passano alcuni mesi e un killer uccise Mattarella in via della Libertà a Palermo. L’uomo si avvicinò al finestrino dell’auto dove l’allora Presidente della Regione era appena entrato insieme alla moglie, coi due figli e con la suocera per andare a messa, e sparò diversi proiettili.
“Quando fu ucciso - racconterà poi Rognoni - io non ricollegai il delitto a ciò che mi aveva detto perché fece discorsi attinenti alla politica locale, non il preannuncio di qualcosa che potesse capitare a lui. Certo, denunciò un quadro allarmante, l’esistenza di un establishment che ostacolava la sua intenzione di fare pulizia soprattutto nel campo degli appalti e aveva un referente politico dentro il partito nella persona di Vito Ciancimino. Ma aggiunse che sarebbe andato avanti convintamente e serenamente, e non mi parlò di rischi o minacce per la sua persona”. Testimonianza, questa, che confermerebbe il contesto non solo mafioso, ma anche politico dell’assassinio, nonostante il processo che seguì portò unicamente alla condanna dei boss mafiosi Totò Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Antonino Geraci e Francesco Madonia.
In seguito all’incontro con Rognoni, ha dichiarato Di Carlo, “da Roma qualcuno chiese informazioni” in merito alle denunce di Mattarella fatte alla procura di Palermo, e Pajno ne parlò con i Salvo. “Da questo episodio partì l’omicidio Mattarella”.
Foto © Letizia Battaglia