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vitopalazzolodi Nicola Biondo - 1°aprile 2012
Per Giovanni Falcone era una delle menti del riciclaggio dei soldi mafiosi. Per la Procura di Palermo uno dei banchieri di Cosa nostra. Nonostante questo e una condanna definitiva a nove anni, Vito Roberto Palazzolo era un libero cittadino, con un nome nuovo –Robert Von Palace – un passaporto sudafricano in tasca e un patrimonio personale quantificabile in centinaia di milioni di euro. Tutto questo fino a ieri, quando è stato fermato all’aeroporto di Bangkok, in Thailandia, dove si trova tutt’ora in stato di “trattenimento temporaneo” in un ufficio della polizia di frontiera locale. Palazzolo è stato fermato perché il passaporto che utilizzava non riportava né il suo nome né quello acquisito in Sudafrica dove risiedeva dalla fine degli anni ’80. Un reato amministrativo che potrebbe costargli l’immediata espulsione dal paese per finire “tra le braccia” degli agenti italiani e di qui su un aereo destinazione Italia dove si aprirebbero per lui le porte del carcere.

Una eventualità che Palazzolo ha provato a scongiurare offrendo 250 mila dollari come cauzione per ritornare in Sud Africa dove godrebbe di forti protezioni. Protezioni che però starebbero venendo meno: sulla vicenda del suo fermo un fax proveniente dal paese africano avrebbe lasciato mano libera nella decisione alle autorità Thai. Da due mesi gli spostamenti di Palazzolo in estremo oriente erano monitorati dalla Procura di Palermo, con complesse indagini anche telematiche che hanno visto impegnati Carabinieri e Polizia. I profili Facebook e di altri social network riferibili al latitante e al suo nucleo familiare sono stati messi sotto controllo consentendo di documentarne gli spostamenti fino in Thailandia, dove poche ore prima del suo arrivo si trovavano agenti dell’Interpol e dello SCO della Polizia. Palazzolo, uno dei “most wanted” per il Ministero dell’Interno, deve scontare una pena definitiva, arrivata nel 2009, di nove anni per associazione mafiosa reato però per il quale il Sudafrica ha negato tre volte l’estradizione. "Nel 2010 – spiega il legale di Palazzolo, Saro Lauria - l'alta corte sudafricana si era pronunciata per l'ineseguibilità della sentenza di condanna emessa dall'Italia, anche perché in Sud Africa non esiste il reato di associazione mafiosa”. Una condanna definitiva su cui pende però la possibilità di un processo di revisione ammesso dalla Corte d’appello di Caltanissetta e che si dovrebbe aprire a breve.
Tra la Cupola e Dell’Utri
Il primo ad accendere un faro sulle attività del commercialista di Terrasini, in provincia di Palermo, fu Giovanni Falcone. Palazzolo veniva indicato da documenti ritrovati dal pool antimafia e da diversi pentiti come il riciclatore dei narcodollari della Pizza Connection, il più lucroso affare di droga in mano a Cosa nostra. Cifre difficili da scrivere – oltre cinque miliardi di dollari – finiti tra la Svizzera e gli Stati Uniti, una parte delle quali pilotate secondo la sentenza del 2008, proprio da Palazzolo che diventa così “il cassiere di Riina e Provenzano”. “Per me sono due criminali” ha detto in una delle sue rarissime interviste Palazzolo. Eppure di segreti è piena la sua vita: il suo sbarco in Germania dalla Sicilia, i lavori umili, il salto nella grande finanza, il legame con Tano Badalamenti – boss di Cinisi – e l’enorme fortuna accumulata in vent’anni in Sud Africa: miniere, fattorie, società immobiliari. E tra questi segreti un conto bancario, Wall street 651, in cui finivano i soldi dei boss che Falcone provò fino all’ultimo a scoperchiare. Dopo due arresti in Svizzera negli ottanta, l’assoluzione dal maxiprocesso, Roberto Palazzolo sparisce.  In Sudafrica investe enormi somme di denaro, appoggia gli uomini dell’apartheid per poi saltare sul carro dei vincitori del nuovo governo di Nelson Mandela. Mille affari: l’allevamento di struzzi, lo sfruttamento minerario, una esclusiva riserva di caccia. Cambia pure nome e diventa, Robert Von Palace.
Eppure non vengono mai meno, secondo le indagini, i legami con la Sicilia e la mafia. E con la politica. Ospita latitanti e stringe rapporti con Marcello Dell’Utri. E’ il 2003 quando Palazzolo chiede alla sorella Sara di mettersi in contatto con il senatore per i suoi problemi giudiziari: le richieste di estradizione e rogatoria internazionale che pendono nei suoi confronti. Decide di farsi aiutare, come dimostrano otto intercettazioni presentate dalla procura di Palermo, da Marcello Dell’Utri. “Non devi convertirlo, è già convertito”. Così parlò Palazzolo del senatore ed effettivamente Dell’Utri entrò in contatto con la sorella del latitante ma cosa si dissero è un segreto perché il Senato negò l’autorizzazione all’uso delle’intercettazione nel processo all’esponente politico.

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