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dali-antonio-web“Mai incontrati i mafiosi”. Ma salta fuori un rapporto del 2010 della Polizia quando D’Alì parlava di affari con un uomo condannato per associazione mafiosa
di Rino Giacalone - 17 dicembre 2011
C’è stato un rinvio al 3 febbraio per  l’udienza preliminare relativa alla richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa avanzata dalla Dda di Palermo nei confronti dell’attuale presidente della Commissione Ambiente del Senato, Tonino D’Alì, sottosegretario all’Interno durante il Governo Berlusconi tra il 2001 e il 2006.

Ma non è stato per il parlamentare trapanese, che era presente nell’aula del giudice Giovanni Francolini, un rinvio indolore. Il pubblico ministero Andrea Tarondo, che con il pm Paolo Guido e con il procuratore aggiunto Teresa Principato ha firmato la richiesta al gup per processare il senatore ex proprietario della Banca Sicula di Trapani, ha infatti prodotto una nuova documentazione, un nuovo corposo “indice” di documenti, ulteriori prove, secondo la magistratura antimafia palermitana delle connessioni tra D’Alì ed i mafiosi trapanesi. E si tratta di documenti “pesanti” e lo si è percepito anche  dal tenore delle dichiarazioni che appena fuori dall’aula del gup ha reso il senatore D’Alì ai giornalisti. Lui che con i suoi difensori, avvocati Gino Bosco e Stefano Pellegrino, pare che fosse anche pronto a rendere dichiarazioni, ha dovuto registrare il “colpo” a sorpresa della pubblica accusa che è spuntata con nuovi verbali.

«Il mio – ha detto D’Alì - è un caso assolutamente originale. Anni di indagine hanno portato ad una richiesta di archiviazione e senza che il Gip la rigettasse tale richiesta è stata trasformata all’improvviso  in richiesta di rinvio a giudizio. Nel panorama delle originalità e degli errori che la nostra giustizia ci riserva questa è quella che oggi riguarda il cittadino Antonio d’Alì. Evidentemente – questa è la parte dura delle dichiarazioni - vi sono una o due persone che stanno facendo sforzi immani per farmi apparire diversamente da quel che sono, cioè una persona perbene ed onesta. Sono comunque certo che non ci riusciranno. Oggi la notizia è che subiamo un nuovo rinvio a causa del deposito di documenti (un giorno prima dell’udienza!) da parte dei PM e ciò, unitamente alla decisione di trasformare la richiesta di archiviazione in rinvio a giudizio, comincia a configurare una  concreta forma di prassi dilatoria da parte dell’accusa. Personalmente invece, anche per non gravare economicamente sulle spalle dei cittadini e per esigenza di giustizia, confidando in una rapida soluzione di questo errore giudiziario, farò tutto quello che la legge mi consentirà per accorciarne i tempi senza utilizzare eventuali prerogative legate al mio status di parlamentare».

Fin qui le dichiarazioni del senatore D’Alì. Dalla Procura di Palermo non c’è alcuna replica. Restano, a parlare, le carte. La Dda ha presentato verbali di sommarie informazioni rese dall’ex moglie del senatore, la signora Picci Aula (che intervistata tempo addietro dalla giornalista Sandra Amurri, per “Il Fatto Quotidiano”, aveva svelato segreti che erano rimasti mai confessati sull’ex marito e sui suoi rapporti con i mafiosi, intervista che poi la donna smentì, ma dinanzi al pm che la interrogò successivamente pare che qualche segreto, di quelli pubblicati sul giornale, lo abbia confermato), dichiarazioni rese dall’ex vice presidente vicario di Confindustria Giuseppe Marceca, dai collaboratori di giustizia Nino Giuffrè e Tommaso Cannella. Giuffrè ha detto ai pm di avere saputo da Bernardo “Binnu” Provenzano, il capo mafia di Corleone, che D’Alì era “a disposizione”, Cannella ha parlato di quando Bagarella voleva riuscire ad organizzare un partito nei primi anni 90, “Sicilia Libera”, e Giuseppe Marceca, sentito anche durante l’istruttoria, a Trapani era uno dei riferimenti certi di questa nuova formazione politica a quanto pare assieme a Tonino D’Alì che però poi scelse di candidarsi con Forza Italia. Mentre Cosa nostra siciliana pensava a creare un partito, da Milano arrivò l’annuncio della discesa in campo di Berlusconi e dalla provincia di Trapani, la terra del boss Matteo Messina Denaro, partì l’ordine di appoggiare il nuovo partito di Forza Italia come ha anche spiegato ai magistrati un altro pentito, l’ex reggente della cosca di Mazara del Vallo, Vincenzo Sinacori. Fin qui le nuove accuse contro il senatore che si aggiungono a quelle già depositate.

I destini di Forza Italia trapanese sarebbero stati in mani mafiose. Lo disse per primo Sinacori durante il maxi processo alla mafia denominato “Omega”, quando dichiarò che mentre Cosa nostra pensava a farsi nel 1994 un partito tutto per se – Sicilia Libera –arrivò da Matteo Messina Denaro l’ordine di votare Forza Italia. Poi qualche anno dopo, in anni recenti, durante il processo al riconosciuto nuovo capo della mafia di Trapani, “don” Ciccio Pace (imprenditore di Paceco, condannato in via definitiva a quasi 20 anni), saltò fuori una intercettazione dove i mafiosi si preoccupavano dei continui litigi dentro il partito berlusconiano tra il senatore Tonino D’Alì e il deputato regionale Nino Croce. Adesso, storia di questi giorni, nel procedimento per concorso esterno in associazione mafiosa contro il senatore D’Alì, ci sono le dichiarazioni dell’imprenditore Nino Birrittella che racconta non solo delle campagne elettorali sostenute da Cosa nostra a favore di D’Alì, ma anche della intermediazione che nel 2001 fu esercitata dalla mafia per convincere l’on. Croce a optare per il listino del presidente eletto (Cuffaro) e lasciare libero il seggio scattato per la lista di Forza Italia all’on. Giuseppe “Peppone” Maurici, allora vicino al senatore D’Alì.

Per la Dda di Palermo sono “antichi” i contatti tra D’Alì e le famiglie mafiose trapanese. Contatti, per così dire, ereditati. D’Altra parte è lo stesso senatore D’Alì a dire di essersi trovati i Messina Denaro negli anni 80 “campieri” sui suoi terreni di Castelvetrano, quando già erano stati i suoi avi a intessere rapporti soprattutto con il campiere Francesco Messina Denaro, padre dell’attuale super latitante Matteo. La storia di questi terreni di contrada Zangara di Castelvetrano è quella che secondo la Dda prova la disponibilità del senatore con la mafia.

Così almeno si racconta. Negli anni 80 D’Alì avrebbe avuto ingenti debiti da pagare per un investimento andato a male in Sardegna, e quei terreni di Zangara dice di averli dovuti vendere per evitare il tracollo. Quel terreno di contrada Zangara finì, con atto notarile di dieci anni dopo, nelle mani dei Messina Denaro e però secondo l’accusa i D’Alì non vendettero veramente, o almeno la cessione di quel terreno sarebbe stata gratuita, i soldi pagati dai prestanome dei mafiosi davanti al notaio che fece l’atto, 300 milioni di vecchie lire, furono restituiti da D’Alì che così avrebbe favorito una operazione di riciclaggio.

Questa storia costituisce il primo capo di imputazione per l’attuale presidente della Commissione Ambiente del Senato. Ovviamente il punto di vista della difesa è tutto l’opposto, D’Alì con la mafia non c’entra nulla, anzi l’ha subita, la sua colpa quella di essersi mosso magari non rendendosi conto di chi si muoveva alla sua ombra.

E invece per la Dda di Palermo negli anni 90 l’idea dei mafiosi belicini era straordinaria: acquisire la proprietà di una serie di terreni, per fare nascere la “Castelvetrano 2”, una cosa che ricorda tanto la “Milano 2” di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Una vicenda, questa della compravendita tra il senatore ed i mafiosi del terreno di contrada Zangara,  che viene descritta nelle pagine della sentenza scaturita dal maxi processo alla mafia trapanese denominato “Omega”, una sentenza diventata definitiva. “Sull’amicizia di Francesco GERACI con il MESSINA DENARO ci si è già soffermati ampiamente nella scheda dedicata alla verifica della sua attendibilità. In questa sede, pertanto, ci si limiterà a richiamare alcuni dati fondamentali. GERACI, che gestiva insieme ai suoi fratelli Andrea e Tommaso una gioielleria in via XX settembre a Castelvetrano, era amico d’infanzia di MESSINA DENARO Matteo, che poi perse di vista per incontrarlo nuovamente nel 1989, al Circolo “Pirandello” di Castelvetrano, che entrambi frequentavano.  In quel periodo il collaboratore chiese aiuto al MESSINA DENARO, perché era esasperato dal fatto che i suoi fratelli Andrea e Tommaso, insieme ai quali gestiva un esercizio di oreficeria all’ingrosso, e la loro sorella Giovanna, che aveva un negozio di vendita al dettaglio di gioielli, erano stati rapinati e un loro dipendente era stato addirittura sequestrato sullo scorrimento veloce di Agrigento, e perché temeva che la cosa si ripetesse. La scelta di rivolgersi proprio al suo amico d’infanzia fu dettata dalla consapevolezza del fatto, noto a tutti a Castelvetrano, che il padre di quest’ultimo, Francesco, detto “zio Ciccio”, era un mafioso di rango. Matteo MESSINA DENARO accettò di aiutarlo e il GERACI lo ringraziò, mettendosi a sua disposizione per qualsiasi cosa. Da allora il GERACI funse spesso da autista al MESSINA DENARO, che all’epoca non passava più le notti a casa. Dapprima il giovane boss mafioso lo coinvolse in alcuni incendi di abitazioni, poi in un primo omicidio a Santa Ninfa (CAPO Giuseppe). Dopo quest’ultimo crimine il collaborante ebbe un ripensamento e un giorno al circolo disse a MESSINA DENARO Matteo che doveva andare a Vicenza o ad Arezzo per lavoro; quando ebbe pronunciato queste parole si avvide che CLEMENTE dapprima guardò MESSINA DENARO “come per dire: che vuol fare questo” e poi gli fece presente che se voleva tirarsi indietro lo doveva dire subito. A quel punto egli decise di rimanere, temendo per la propria incolumità. Partecipò complessivamente a sei omicidi e a un tentato omicidio, ma fu arrestato per un fatto di cui non sapeva nulla, cioè l’assassinio di BONOMO Antonella, avvenuto nell’alcamese nell’estate del 1992. Il GERACI ha aggiunto che non venne mai affiliato, ma che il MESSINA DENARO gli disse che era più importante di un “uomo d’onore”, alludendo al fatto che era stato coinvolto nel viaggio a Roma per l’attentato a Maurizio COSTANZO. Tramite il figlio del capo mandamento di Castelvetrano il GERACI conobbe molti importanti personaggi di “cosa nostra”, tra i quali lo stesso RIINA, che ebbe modo di incontrare tre volte, sempre nel suo  negozio di vendita di gioielli all’ingrosso. Nella prima occasione erano presenti GERACI e MESSINA DENARO Matteo. Dapprima entrarono nel locale solo quest’ultimo e RIINA (il quale era stato accompagnato da Pietro GIAMBALVO), mentre gli altri due attesero fuori, poi fu chiamato anche GERACI. In quella circostanza venne a sapere che l’azienda agricola di Zangara -che egli si era intestato su richiesta di MESSINA DENARO Matteo e per fare un piacere a costui- era in realtà del RIINA. Con riferimento a tale fondo, il capo mafia emergente di Castelvetrano gli disse che, dato che rischiavano di morire, doveva confidare a uno dei suoi congiunti che la proprietà era sua solo nominalmente e il collaboratore decise di parlarne a suo fratello Andrea….. Per conto del RIINA il GERACI, su richiesta di MESSINA DENARO Matteo, si intestò formalmente un fondo in zona Giallonghi sita alla periferia di Castelvetrano alienato da SAPORITO Stefano per il corrispettivo di £.300.000.000. Dovendo l’operazione essere formalmente ineccepibile, il collaboratore, sempre su indicazione del boss mafioso, si recò a Mazara del Vallo, dove SINACORI Vincenzo gli aveva fissato un appuntamento con un tale Gabriele SALVO responsabile di una società finanziaria. Il GERACI consegnò a quest’ultimo la somma di £.300.000.000, che aveva ricevuto da MESSINA DENARO, e la finanziaria gli erogò un mutuo, per il quale -sebbene con Gabriele SALVO fossero in ottimi rapporti- pagò le spese, che gli pare ammontassero a circa il 4%, proprio per conferire all’operazione il crisma della liceità. Alcuni mesi dopo, su ordine di MESSINA DENARO, vendette il terreno a un imprenditore di Palermo, un tale SANZONE, che in seguito il collaboratore apprese essere molto vicino a RIINA. Fu stabilito che l’acquirente avrebbe corrisposto la somma di £.550.000.000, che MESSINA DENARO gli confidò che avrebbero utilizzato per acquistare un’azienda agricola. Per altro, riuscirono a stipulare solo una promessa di vendita perchè SANZONE fu arrestato prima che potessero firmare il contratto. Al momento dell’arresto, il promittente acquirente aveva firmato in suo favore assegni per £.450.000.000, che il collaborante diede al MESSINA DENARO, non ricorda se subito o dopo alcuni mesi. Il terreno era edificabile, tanto che sentì MESSINA DENARO parlare con SANZONE del fatto che avrebbero edificato su di esso palazzi per creare “Castelvetrano 2”.     Con il denaro ricavato da questa operazione il GERACI, sempre su decisione del MESSINA DENARO, acquistò un’impresa agricola in contrada Zangara da un membro della famiglia D’ALÌ di cui non ha saputo specificare il nome. Il contratto venne rogato dal notaio LOMBARDO a Mazara del Vallo e il corrispettivo venne fissato in £.300.000.000 da pagarsi in varie soluzioni a scadenze semestrali, previa corresponsione immediata di una somma di £.100.000.000 o 150.000.000 (per altro tutte le predette operazioni erano documentate in banca). Ogni volta che GERACI versava al D’ALÌ una somma, questi gliela restituiva: o andava egli stesso a prenderla a Trapani alla sede centrale della Banca Sicula o, se non poteva, ci mandava il fratello Tommaso. Naturalmente restituiva la somma al MESSINA DENARO Matteo”. I giudici ancora annotarono: “…il GERACI è stato proprietario di fondi in contrada GIALLONGHI di Castelvetrano catastalmente censita al numero 9.143, foglio 35, part. 152 ceduto da SAPORITO Stefano alla società “G.F.M. di GERACI Francesco” di cui era socio accomandatario. Inoltre il GERACI ha acquistato un appezzamento di terreno in contrada Zangara per complessivi 32 ettari, comprati in data 5 gennaio 1993 da Antonio D’ALÌ, cl. 1951, terreno, quest’ultimo, ceduto al demanio della regione siciliana nel 1995. I predetti immobili sono stati confiscati con sentenza emessa il 16 marzo 1999 dalla Corte d’Appello di Palermo, in quanto ritenuti, conformemente alle dichiarazioni del GERACI, nell’effettiva disponibilità di RIINA e acquistate con i proventi della sua attività criminale (cfr. citata decisione, divenuta irrevocabile il 7 giugno 1999, prodotta dal P.M. all’udienza del 18 febbraio 2000). Il GERACI ha ottenuto finanziamenti dalla finanziaria “CRECOFIN di SALVO Gabriele”.   Quest’ultimo,   sentito nella qualità di  indagato  in   reato connesso ha affermato che  il  finanziamento fu concesso su  richiesta  di un tale GERACI, che ha riconosciuto in GERACI Andrea, qualificatosi come gestore di una gioielleria di Castelvetrano e come rappresentante di preziosi. Il SALVO ha precisato di conoscere anche GERACI Francesco, identificandolo come il soggetto che effettuava il materiale versamento del denaro alla finanziaria al fine di costituire il citato deposito. Ha aggiunto il GERACI chiese di costituire,  nel  più assoluto anonimato, un deposito di circa £.200.000.000 a  fronte  del  quale la “CRECOFIN” avrebbe ricevuto una  linea  di credito  intestata a una delle società del GERACI, linea di credito che sarebbe stata rimborsata dopo un certo periodo e con un differenziale di interesse da calcolare successivamente. Infine SALVO ha sottolineato che l’operazione era stata caldeggiata da SINACORI Vincenzo, che aveva incontrato a Mazara insieme a GERACI Francesco; il SALVO ha affermato altresì che nel 1992, quando fu nominato liquidatore della “CRECOFIN” tentò di rintracciare la pratica del GERACI, ma gli impiegati lo informarono che non era mai stata definita e in effetti neppure l’attuale liquidatore, TILOTTA Maria nata a Mazara il 3 settembre 1961, l’aveva rintracciata tra le pratiche effettivamente esistenti presso la finanziaria…”.

In sintesi il fatto c’è ed è esistita la compravendita, oggi il senatore D’Alì non la nega, ma racconta la sua versione. Il terreno lo divise in sei lotti e lo vendette: la prima vendita la perfezionò con il deputato del Pri Aristide Gunnella, 14 ettari in cambio di 252 milioni di vecchie lire, questo era il lotto 4, il lotto 5, 30 ettari di vigneto, per quasi 500 milioni di vecchie lire, D’Alì firmò un compromesso con un suo confinante, il campobellese Alfonso Passanante (anche questo comunque riconosciuto mafioso di Partanna) e questo nell’ottobre del 1982. In mezzo alla produzione di oltre 5 mila pagine di documenti, 3 mila quelli dell’accusa, la difesa ha prodotto gli atti che a suo dire comprovano il fatto che Antonio D’Alì di quel terreno di contrada Zangara non se ne occupò più da quel 1982. Passanante non era certo uno stinco di santo, era proprietario di un uliveto proprio vicino al lotto 5 del terreno di D’Alì, acquistò così quei 30 ettari senza mai però fare l’atto, “e questo perché l’aumento del possedimento avrebbe fatto scattare una serie di obblighi economici, per l’una e l’altra parte, per venditore e acquirente, Passanante risultava coltivatore diretto e avrebbe perduto questa qualifica con tutte le conseguenze di carattere patrimoniale. D’Alì intascò i soldi e non si preoccupò così come fece Passanante di stipulare il regolare atto. La difesa del parlamentare sostiene che la cessione del terreno avvenne solo formalmente tra D’Alì e Geraci, ma di fatto fu Passanante a vendere quel terreno a Geraci e quindi ai Messina Denaro. Non avendo però la titolarità della proprietà a firmare l’atto dovette andare D’Alì che i soldi per quel terreno li aveva presi nel 1982 dal suo confinante e quindi quella restituzione era “legittima”. Una procedura però anomala anche se raccontata in questa maniera. La Procura antimafia sostiene che questa vendita “fu il principio di ogni malaffare”. La difesa oppone che la vicenda “è rimasta penalmente non trattata per 11 anni”, e aggiunge ”che ci fu anche una archiviazione decisa dall’allora pm della Dda Massimo Russo”, oggi assessore regionale alla Salute.

La vendita che sarebbe stata fittizia di contrada Zangara è così ampia che quasi mette in ombra il resto delle accuse che non sono nemmeno da poco. La procura antimafia di Palermo ha prodotto sentenze passate in giudicato dove compare il nome di D’Alì, intercettazioni, verbali di interrogatorio. Per i magistrati antimafia sono provati i suoi rapporti con mafiosi conclamati come i Messina Denaro, il trapanese Vincenzo Virga, il valdericino Tommaso Coppola, il pacecoto Ciccio Pace e con l’ex uomo d’onore adesso “collaborante”, ex patron del Trapani Calcio, Nino Birrittella. Le altre accuse: “avere cercato di inibire ed ostacolare le iniziative a sostegno delle imprese sequestrate o confiscate (quali ad esempio la Calcestruzzi Ericina)”; “avere contribuito alla espansione di altre imprese, come la Sicilcalcestruzzi e la Vito Mannina”; “intervenendo su procedimenti relativi ad appalti pubblici, come quelli inerenti la Funivia di Erice, la valutazione di congruità di un edificio destinato a caserma dei carabinieri a San Vito Lo Capo, la erogazione di finanziamenti pubblici legati al patto territoriale Trapani Nord, la messa in sicurezza del porto di Castellammare del Golfo, e questo per favorire il controllo di attività economiche da parte di Cosa Nostra”. Birrittella ha descritto in che modo la mafia trapanese ha elettoralmente sostenuto D’Alì, del favore che D’Alì gli avrebbe reso a proposito dell’affitto di un edificio di sua proprietà, a San Vito Lo Capo, diventata sede della caserma dei Carabinieri, dell’”affare” del porto, degli appalti che una “cricca” (sul modello poi ripetuto per L’Aquila del dopo terremoto) sarebbe riuscita ad aggiudicarsi per rimodellare l’approdo trapanese e renderlo idoneo ad ospitare nel 2005 le super barche a vela della Coppa America. C’è anche non in secondo piano certo la vicenda della “rimozione” nel 2003, quando D’Alì era sottosegretario all’Interno, dell’allora prefetto di Trapani Fulvio Sodano, il suo trasferimento viene indicato come “cacciata” in altri atti giudiziari.

La Procura ha indicato per ogni circostanza atti giudiziari, verbali, intercettazioni. La difesa ha opposto oltre alle carte una serie di verbali di interrogatorio. Quelli per esempio dell’ex capo della Polizia, il prefetto Gianni De Gennaro che ha escluso l’esistenza di informative riguardanti il senatore. Ma tra i documenti presentati dal pm Tarondo all’udienza del 16 dicembre c’è un rapporto della Squadra Mobile del gennaio 2010 dove sono indicati elementi che proverebbero contatti tra il senatore D’Alì e un imprenditore che ha patteggiato una condanna per accuse di mafia. Tra i testi a favore del senatore D’Alì ci sono l’ex prefetto Giovanni Finazzo e l’ex vice ministro e leader di Forza Sud Gianfranco Miccichè e ancora l’ingegnere Vincenzo Morici, erede dell’omonima impresa edile che fa capo al padre Francesco che invece come indagato è stato sentito dai magistrati della procura antimafia a proposito di appalti pilotati. L’impresa Morici  compare tra quelle che negli ultimi anni si sono aggiudicate le più ingenti commesse a Trapani, la Funivia di Erice, il risanamento della litoranea nord della città, il maxi appalto da 40 milioni di euro per le nuove banchine portuali di Ronciglio rimaste ancora oggi incompiute a distanza di sei anni dall’inizio dei lavori.

Nelle carte dell’0accusa invece ci sono alcune intercettazioni dove i mafiosi parlano della possibilità di avvicinare D’Alì per ottenere favori. Come quando fu sequestrato un terreno occupato da una discarica abusiva e sul quale la mafia trapanese guidata da Ciccio Pace aveva precisi progetti immobiliari: "U vonnu sequestrare, si ci misi Giovanni Palermo (avvocato, ndr), ora va acchiappa ddocu a D'Alì, ci rici chi un ci rumpi a minchia picchì già mi annuiau."
 A verbale l’imprenditore Birrittella ha dichiarato: “La mia conoscenza con il senatore D’Alì è diretta il sostegno elettorale risale già alle elezioni del 1994, organizzammo organizzarono per lui una riunione elettorale a Dattilo”. Birrittella ricorda alcuni incontri presso la segreteria del senatore: “Andavamo da lui e prima di entrare nella stanza ci faceva lasciare fuori i telefonini”.
E a proposito del trasferimento del prefetto Sodano: “Quando fu del fastidio che l’allora prefetto Sodano dava ai nostri affari sentii parlare Pace in modo chiaro sul trasferimento di questi che non poteva oltremodo essere ritardato”. E per trasferire un prefetto è il Consiglio dei ministri a deciderlo. E così avvenne nel luglio del 2003, Sodano finì da Trapani ad Agrigento senza tante scuse.
All'avvio dell'udienza preliminare contro il senatore D'Alì ci sono state alcune richieste di costituzione di parte civile, avanzate dalle associazioni antiracket di Alcamo, Marsala e Mazara e dal centro Pio La Torre di Palermo.

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