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lapis-gianni-web2di Silvia Cordella - 4 dicembre 2011
Un tesoretto da 60 milioni di dollari americani e franchi svizzeri da far rientrare nel circuito economico nazionale, attraverso un giro di ripulitura affidato a canali non ufficiali per eludere la tracciabilità bancaria.
Un colpaccio dietro il quale vi sarebbero stati gli interessi di Gianni Lapis, l’ex prestanome di don Vito Ciancimino, condannato definitivamente per tentata estorsione e violenza privata nel processo per riciclaggio a carico di Massimo Ciancimino. E indagato attualmente per corruzione nell’inchiesta sulle tangenti della “Gas spa” ai politici siciliani, Vizzini, Romano e Cuffaro.

Quella messa a segno ieri a Roma dal procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, insieme ai sostituti Lia Sava e Dario Scaletta, è stata una vera e propria operazione d’intelligence eseguita in collaborazione con le Fiamme Gialle, in cui sarebbe emersa “una struttura di servizio a disposizione di mafiosi e tangentisti per ripulire soldi sporchi”. Un organismo al cui vertice, secondo gli investigatori, vi sarebbe stato Lapis. Per questo, il professore di diritto tributario, sospeso dall’insegnamento universitario dopo la condanna definitiva legata al tesoro dell’ex sindaco mafioso di Palermo, è finito nuovamente in carcere con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio.  
Le indagini si sono avvalse di un’agente della Guardia di Finanza sotto copertura ed è questa la vera novità che ha fatto decollare l’inchiesta. L’ufficiale ha vestito i panni di un faccendiere cambiavalute, concordando con il gruppo diretto da Lapis il pagamento di 45 milioni di euro in cambio di 60 milioni di dollari. Con una provvigione del 15 per cento in favore dell’intermediario. Il quartier generale dell’ex tributarista sarebbe stato a Palermo nello studio di via Libertà ma le contrattazioni avvenivano a Roma nella centralissima via Cavour o in alberghi e istituti bancari della città. Lì, i componenti della banda, secondo gli investigatori,  s’incontravano per concordare i traffici milionari. I sessanta milioni di euro, avrebbero spiegato i presunti riciclatori all’agente infiltrato, “provenivano da alcune tangenti versate ai politici della prima Repubblica negli anni ’86, ’87 e’88”. “All’epoca – avrebbero specificato ancora – la corruzione avveniva mediante il versamento di tangenti in valuta estera perché non era soggetta a svalutazione”. Gli uomini dello Scico, il servizio centrale della Finanza per le indagini antimafia, hanno seguito la contrattazione con appostamenti, filmati e microspie. È emerso che il gruppo aveva preso contatti anche con soggetti che avevano il problema opposto, cioè quello di cambiare capitali di denaro in valuta straniera. I magistrati però non sono riusciti a capire chi fossero i “trafficanti”, né a mettere le mani sui soldi del gruppo  perché al momento del blitz era già stato posto al sicuro, dentro una cassetta di sicurezza di un istituto di credito romano (dopo esser passato nelle mani di Salvatore Amormino, uno dei cinque arrestati nell’inchiesta). Per ora rimane all’oscuro l’origine del capitale ma potrebbe essere ricollegato a un certo “Mario”, un misterioso soggetto che è saltato fuori nelle intercettazioni dell’agente top secret. E che il traffico seguisse rotte internazionali da oriente a occidente sarebbe stato lo stesso Lapis a farne menzione al telefono, non sapendo di essere intercettato. “L’oro lo prendiamo ad Hong Kong” diceva ad un amico imprenditore e ad un altro: “Ho incontrato le persone interessate all’operazione su Roma”. Il professore, coinvolto negli anni Ottanta anche nel crac della Sicilcassa, avrebbe continuato a gestire in modo anomalo i suoi affari. Ora, l’inchiesta delle fiamme gialle col metodo degli agenti infiltrati aprirebbe la porta a nuovi importanti scenari sul fronte della lotta all’economia mafiosa. Proprio stanotte è stato arrestato un altro componente del “clan” rimasto in libertà. Si chiama Beniamino Margherita. Non sapendo del blitz di venerdì scorso aveva proseguito i contatti con l’agente del Nucleo speciale di polizia valutaria.. Nella sua macchina, fermata a Pomigliano D’Arco, in provincia di Napoli, sono stati trovati 5 milioni di won, la valuta della Corea del Nord, mentre altri 5 milioni e 400 sono stati rinvenuti in un appartamento, dentro un vano di un sottoscala. Il cambio col tasso di mercato avrebbe portato un valore di 10 mila euro se non fosse sopraggiunta la finanza a bloccare la compravendita.  Nel sequestro gli agenti hanno anche trovato una pistola con matricola abrasa. Insieme a Beniamino Margherita c’era un uomo che è stato denunciato a piede libero. Nell’inchiesta ruotano ancora delle figure che non sono state identificate, una riguarda un arabo che avrebbe curato le mediazioni d’affari in Spagna. “Il gruppo – ha fatto sapere la Guardia di finanza tramite il suo rapporto - era impegnato anche in un´attività di mediazione creditizia finalizzata a far conseguire alla società Total un finanziamento di sei milioni di euro da parte di una banca svizzera, con la mediazione di altri soggetti non identificati”. Di certo l’affare di cui si ha maggior contezza appare relativo al cambio dei 60 milioni di cui Lapis aveva chiesto consiglio a uno dei soci del suo studio, Antonio Gaudio, il cui ruolo è sotto verifica attenta degli inquirenti. Come pure quello del palermitano Vincenzo Barresi, di 36 anni, sentito più volte da Lapis per le operazioni sulle cento tonnellate d’oro che sarebbero arrivate dal “porto profumato” di Hong Kong.

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