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Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.

Oasi di Cavoretto, colline torinesi. In una giornata di sole una settantina di persone per lo più giovani discute dei propri progetti in una grande sala a pianterreno di un’ex struttura religiosa fattasi luogo di turismo e riflessione. Sono progetti che hanno una cosa in comune: la voglia di un’Italia senza mafia.

Scruto il gruppo. Eterogeneo e composito come pochi. Diversi studenti universitari e insegnanti, poi impiegati, operatori di cooperative, pensionati. Ma anche appartenenti al mondo della giustizia o delle forze dell’ordine, del giornalismo o delle libere professioni. Anche alcuni preti.  O familiari di vittime di mafia. Una discreta prevalenza femminile.

Li accomuna anche il nome dell’associazione per cui si impegnano: si chiama Libera e a guidarla c’è un prete, don Luigi Ciotti, il fondatore.

Ho sempre creduto di conoscerla bene questa associazione, ma stavolta è come se a un certo punto avessi un’illuminazione. Che in pochi minuti decido di consegnare ai lettori del “Fatto”.

Si discute di come organizzare, promuovere la grande giornata del 21 di marzo, diventata per legge nel 2017 giornata nazionale della memoria delle vittime innocenti di mafia e dell’impegno.

Quest’anno si celebrerà a Milano. La scelta responsabilizza tutti, e si vede. Perché Milano è la città per definizione sotto la pressione dei clan, ansiosi di spolparsela silenziosamente approfittando dei soldi che, come mai prima, stanno piovendo sull’economia locale. È la città che ha forse, con Palermo, il più forte movimento antimafia d’Italia. La piazza su cui tutti ti misurano le forze, ossia quella delle tue idee.

Ma una città maledettamente cara, dove tutto costa di più. Responsabilità e preoccupazione: ce la faremo? E come? I presenti spiegano che cosa stanno facendo e con quale corredo di fatti e opere alle spalle arriveranno. Rappresentano Libera in quasi tutte le regioni italiane o ne sono responsabili per i vari ambiti di lavoro.

Ed è mentre parlano che capisco (ecco il mea culpa…) di non sapere quasi nulla di loro. I visi sì, li conosco; i nomi quasi sempre. Di dove sono lo dicono gli accenti. Ma è la ricchezza di quel che stanno facendo che mi conquista, che mi riconcilia con il mondo. Una specialità di compiti e missioni che non si trova in alcun partito o movimento.

C’è il settore che promuove il monitoraggio civico della vita pubblica, che insegna a dar battaglia su trasparenza e corruzione. Il gruppo che affianca le cooperative nate sui beni confiscati, e quello che ne promuove i prodotti sul mercato. C’è quello che organizza in tutta Italia formazione su mafia e corruzione, soprattutto nelle scuole, avendo come riferimento centinaia di insegnanti. Quello che promuove legalità nel mondo dello sport dilettantistico. Quello che porta lo sguardo dell’antimafia nella rete delle solidarietà. Chi assiste e aiuta e organizza concretamente i familiari delle vittime. Chi lavora nelle università cercando (spesso con successo) di romperne la riluttanza a fare della mafia materia di studio.

C’è il settore della lotta all’usura e all’estorsione. Chi racconta gli straordinari progetti sulla giustizia minorile, il recupero dei ragazzi cosiddetti “messi alla prova”. O l’assistenza clandestina a quei membri di famiglie mafiose, specie giovani e donne, che decidono di rompere con il mondo di appartenenza. Chi organizza le estati giovanili sui campi di lavoro, ottenendo sempre il tutto esaurito. C’è il difficile sostegno ai movimenti analoghi sorti in altri paesi.

Ascolto e penso che molte delle attività di cui sento parlare non saprei proprio svolgerle. Che richiedono grande coraggio, intraprendenza e molta fatica nervosa.

Che quella preziosa antologia dell’Italia “del fare” mi acquieta interiormente e dà un senso a tutto. Che è bella.

Perché a Cavoretto è stato bello, sapete?

Tratto da: storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 20/02/2023

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