Ironia della sorte, rinveniamo una pertinente risposta nell’ultima intervista di Benito Mussolini, il 20 marzo 945, quando il duce degli Italiani era ormai presago della fine. Si versa in tema di autoanalisi, seppure in uno spirito di lucida riflessione etico-politica. Una drammatica lezione della Storia, da Edward Gibbon in poi, riecheggia nelle sue parole: “L'umanità commette gli stessi errori e li sconta con il sangue”.
Come dare torto all’uomo della Provvidenza, cui si debbono “molte cose buone”, ovvero la trasformazione di una nazione malconcia in una grande potenza di violenza e… cartapesta?
Nella giornata della memoria, nell’odierna fase nazionale di storia e di cultura, costellata dal susseguirsi di sussurri e grida sul fascismo, spettro e paura, irrompe la conclusione del duce: “Io non ho creato il fascismo, l'ho tratto dall'inconscio degli italiani”. Il fascismo, senza la distinzione, cara a qualche epigono ritardato, tra “buono” e “cattivo”! Sorprendente la consonanza dell’assunto con la convinzione del martire Piero Gobetti, secondo il quale il problema non era Mussolini, bensì il “mussolinismo”. Conseguente, l’idea profonda di Antonio Gramsci, l’imperativa necessità di una radicale “riforma intellettuale e morale” del popolo italiano. Iniziato durante la lotta di liberazione, il mutamento è poi scemato in costante regressione, fino agli odierni “frutti del male”.
Se il tratto distintivo della politica contemporanea è la strumentalizzazione/mercificazione delle coscienze, sullo sfondo si staglia uno status psicologico ed etico abilmente insidiato da formule e moduli espressivi, sì, sbrigativi, e che però rispecchiano il (freudiano) “disagio” di individui e cittadini. A questa vulnerabile sensibilità popolare la spregiudicatezza e il cinismo degli apprendisti stregoni prospettano un pericolo esiziale: l’inquinamento della cultura e della società, a causa di flussi selvaggi di persone ‘diversamente umane’. Così, sulle ceneri costituzionali della democrazia repubblicana di Weimar - formalmente vigente fino al 1945! - va in scena la costruzione del nemico di turno, la “Judenfrage”, la questione ebraica, al fine di creare artificiosamente un capro espiatorio nella e per la Germania disfatta. E, sebbene la maggior parte dei capitalisti e dei comunisti non fosse di origine ebraica, violenza dopo violenza, menzogna dopo menzogna, un miserabile caporale austriaco riesce a penetrare nell’universo politico dalla porta principale e a esacerbare i sentimenti di sfiducia di classi lavoratrici profondamente frustrate. Patente la somiglianza con l’Italia.
Sul punto, la “psicologia di massa” dei totalitarismi ha scritto parole conclusive.
Come dimenticare, infatti, che la ‘predicazione’ di Hitler raggiunse la piena ‘plausibilità terminale’ quando, e solo quando, reduce da una serie di insuccessi, il caporale austriaco si convinse che “solo l’odio e la passione conferiscono stabilità al popolo”? Allorché, in stato permanente di agitazione psicomotoria, ma con vigore ed enfasi istrioniche, lanciò la parola d’ordine tragica e definitiva: gli ebrei, mentre prosperavano in terra germanica, ne deturpavano l’ariana purezza.
Se “è accaduto, è l’amaro monito di Primo Levi, può accadere di nuovo”. Al bando esagitazione e allarmismo, solo… occhi spalancati. “Forse, quanto è avvenuto – scrive Levi – non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: “comprendere” un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta e insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (e anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.”
I Konzentrationslager, o semplicemente Lager, sorti dopo l’avvento al potere di Hitler, nel 1933, in principio, perseguivano lo scopo di spezzare con il terrore ogni opposizione al regime. Ben presto si trasformarono, da luoghi di punizione per prigionieri politici, in luoghi di sterminio dei «nemici del popolo tedesco», in particolare ebrei e rom. Per arrivare alla “soluzione finale” il più rapidamente possibile.
Entro la fordiana catena di montaggio di docce e forni crematori, era ‘imprudente’ tenere in vita testimoni. Avrebbero potuto parlare. Ciò nonostante, quel 27 gennaio 1945, l’Armata Rossa liberò 2.819 prigionieri, ormai allo stremo, tra cui 180 bambini, molti dei quali vittime degli esperimenti del medico Josef Mengele. Un piccolo numero, indubbiamente, se rapportato al milione e oltre di persone inghiottite da quella fabbrica di morte.
Eppure, tra dolore e sgomento, la consapevolezza pare affievolirsi, la lunga e lenta memoria ormai si spegne nel formalismo istituzionale di cerchie ristrette di autorità in alta uniforme.
Non furono, forse, l’odio e l’antisemitismo a generare l’abominio? Non vi è, dunque, urgente necessità di sciogliere, Carta alla mano, le frange malate del neofascismo? Di certo, non giovano farisaici vaniloqui d’ufficio sul fascismo… alle spalle!
Nell’ottica di Hannah Arendt, il “totalitarismo” implica e consiste nella riduzione delle persone a “fasci di reazioni nervose”, alla pura dimensione emozionale, mediante la neutralizzazione di quello spazio di libertà e pluralità di prospettive, che uccide il valore autonomo della politica e del “mondo comune”. La schiera dei Soloni che blaterano, talora ex cathedra, di democrazia emozionale e pulsionale, non fa che tradire l’intento di legittimarne e perpetuarne la forma politico-istituzionale vigente.
La deprivazione della capacità di scelta, azione e iniziativa, degli individui, entro un universo comune e plurale, configura esseri impersonali e replicanti. Arendt indica l’antidoto nell’opposta strategia etico-politica, altro dai sermoni domenicali, di formare e valorizzare uomini “portatori di tendenze”, agenti pensanti – ah, la sinistra! – che, non a caso, la temperie totalitaria equipara ai “portatori di una malattia”. Con l’effetto perverso, ed eversivo, che uno stravolgimento siffatto “nega la libertà umana più di qualsiasi tirannide. Una volta, con la tirannide, bisognava perlomeno essere un avversario per essere punito… qui l’innocente e il colpevole erano eguali”.
In contesto di sindrome etico-politica accecata del totalitarismo, gli uomini appaiono incapaci di prendere le distanze dalla loro natura, e di esercitare quella libertà di movimento che rappresenta l’antipode del male. Arendt lo concettualizza come “barbarism”. “Essere umano”, all’opposto, significa possibilità di convivere e pensare con gli altri, evitando di agire per diritto o per rovescio, senza l’ombra di un pensiero personale. Sotto questo cruciale profilo, l’antifascismo, oggi come ieri, si identifica essenzialmente nel contrasto civile - ancor prima che politico - morale e culturale, al “barbarism”. L’antitesi, ossia, che esalta una concezione dell’uomo e del cittadino in quanto ontologicamente distinti dalla bestialità, perché capaci, nella distanza, di agire, oltre che di reagire in modo automatico, quasi pavloviano. Insomma: di pensare, in senso forte, e scegliere. Altro, insomma, quel che noi siamo e scegliamo di essere, il ruolo che vogliamo assumere o, ancora Arendt, la “maschera” che decidiamo di indossare.
Una memoria storica debole, o stancamente rituale, oltre a rimuovere il valore e la verità, rischia sempre di uccidere anche la speranza, leit motiv di uno straordinario racconto della liberazione. “La tregua” di Primo Levi, per l’appunto, che denuncia la ricorrente tentazione di sottrarsi al confronto con il proprio passato, senza autoflagellazione, certamente, ma anche senza rimozione, a pena di ripeterlo in versioni subdole e più… sofisticate.
E oggi? Il testimone è soprattutto nelle mani dell’Europa e della sua storia, traboccante di male, epperò occasione di auspicata progressiva maturazione, nella ricerca di una cultura della pace, senza limiti di etnia, religione, cultura. Nella prospettiva del bene comune, della tutela della pace e della convivenza fra popoli, quale assoluta priorità per la nostra e per le prossime generazioni.
“Se questo è un uomo”. Se noi siamo uomini.
Per tutte, una testimonianza nell’opera Il cuore vigile, nella quale Bruno Bettelheim riporta le proprie memorie sulla prigionia nei lager di Dachau e di Buchenwald. O, ancora, il documentario Paragraph 175, del 2000, che registra testimonianze di persone imprigionate per omosessualità.
Quanto allo stato di brutale sovvertimento dei valori morali dell’equazione umana all’interno dei lager, i celebri versi danteschi: “Qui non ha luogo il Santo Volto!” sembrano aprire le pagine di “Sul fondo”, l’ultimo capitolo del libro Se questo è un uomo. Davanti a una lapide, una guida, che accompagna un gruppo di giovani, ricorda le ultime parole pronunciate da Massimiliano Kolbe prima che gli venisse praticata l’iniezione fatale: «Tu non hai capito niente della vita, perché noi siamo qui per amare».
Era male. Perché nasceva dall’odio.
Dalla storia alla cronaca. Un alto ufficiale dell’esercito della Repubblica democratica, un influencer di rango elevato, tal Roberto Vannacci, nella consueta e abbondante compagnia di giro, rivendica un diritto codificato in tutte le Magnae Chartae dei diritti, fin dal Bill of Rights del 1689: il “diritto all’odio” e la connessa libertà di espressione, costituzionalmente protetta. Il “Codice babilonese di Hammurabi” esibisce un intrigante abbrivo alla mirabile performance del generale incursore. In tema, il “diritto” inviolabile di “trafiggere con un qualsiasi oggetto mi passi tra le mani” chiunque violi il domicilio altrui allo scopo di derubarlo, ovvero il diritto di “piantare la matita che ho nel taschino nella giugulare del ceffo che mi aggredisce, ammazzandolo”. Un sentire comune, un must, non solo secondo il generale, purtroppo, confliggente con il mitico “pensiero unico”, cui contrapporre la veemenza militaresca del proprio verbo post-evangelico: “Rivendico a gran voce anche il diritto all’odio e al disprezzo e a poterli manifestare liberamente nei toni e nelle maniere dovute”.
Infatti. Nel 1924, or sono cent’anni, Hitler scriveva che la propaganda “non ha il compito di individuare verità oggettive, quando queste favoriscono il nemico, e poi offrirle alle masse con onestà accademica; il suo compito è di servire il nostro obiettivo, sempre e comunque, senza esitazioni”. Se non che, la futura belva nazista non aveva giurato, e pertanto non era soggetto né all’art. 21 della nostra Costituzione, né all’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, conforme all’art.10 CEDU, che recita: “L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica”.
Doveri e responsabilità, dunque, nell’esercizio delle libertà costituzionali, l’antipode della giungla. In modo precipuo per un servitore dello Stato e della Costituzione. E per coloro cui incombe l’obbligo giuridico-costituzionale di vigilare.
Poiché la propaganda mira soltanto a colpire emotivamente, non a informare o comunicare contenuti ragionevolmente plausibili, il pathos del suo linguaggio, tipico delle destre di ogni tempo e dove, è infarcito di metafore ed elementi retorici, strumentalmente volti a colpire e a restare impressi nella mente e nel subconscio delle persone. Goebbels sosteneva che la propaganda deve catturare l’attenzione del pubblico ed essere condotta attraverso idonei mezzi di comunicazione, donde l’ossessione nazista per il cinema e la radio.
Nel linguaggio retorico, demagogicamente calibrato, di Hitler e Mussolini, la scelta verteva sull’espressione di natura empatica, il pathos della retorica pseudo-classica, finalizzato al coinvolgimento emotivo dell’uditorio, in completa sconnessione dalla razionalità del lógos. Luoghi comuni, stereotipi corrispondenti ad opinioni diffuse, generalmente accettate e condivise dal pubblico di riferimento. Le masse non erano forse “un oceano… di cuori, che sono foglie in attesa del vento per essere scossi”? E “le vent se lève…”, recita Paul Valery. Tra le rovine della Civiltà e dello Stato di diritto, nelle spire dell’olocausto e della Shoah, i “cuori” del duce si scaldano, quando si alza il vento: dalle leggi fascistissime, alla violenza assassina, privata e pubblica, alle leggi razziali, alla guerra nazista d’immolazione universale…
Un film disgraziatamente già visto. Anche dall’UNESCO, più competente in… architettura!
Al riguardo, il massimo pensatore olandese, Baruch Spinoza, nel ‘600, scolpisce il pensiero che “l’odio è un nemico mortale per l’uomo”. E, curiosamente, in Olanda la celebrazione della memoria, che si svolgerà il 4 maggio, porta il nome di “Dodenherdenking”, Commemorazione dei defunti, le vittime degli orrori dell’Olocausto e della Shoah. Abbiamo recentemente appreso che le commemorazioni rappresentano un innocuo porto franco. Di sicuro, però, non vi scorgeremo braccia tese legalizzate… contra legem!
In contesti di crisi e instabilità, spesso le società “costruiscono nemici”, su cui proiettare e veicolare frustrazioni, timori, odi e paure, qualcuno contro cui lottare, insomma, capri espiatori, necessari per implementare non già sane identità collettive, bensì identità perverse volte a rendere una nazione più ‘coesa’ e… manovrabile, soprattutto.
All’opposto, la sana coscienza umana invoca, come nel caso del noto intellettuale militante, Alexander Langer, l’azione salutare e progressiva dei “mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Occorrono ‘traditori’ della compattezza etnica”.
Poiché, però, le cerchie dell’agire umano sono attraversate da distinzioni, anche nell’ambito dell’agire politico crescono e vigono pulsioni pseudo-intellettuali. Ad hoc, le aberrazioni di successo del teorico e fascistone Carl Schmitt, il precursore del nazionalsocialismo e delle teorie sulla razza. Capitale la sua distinzione tra Freund, amico, e Feind, nemico. Ma chi è il nemico? In ambito politico, è il nemico pubblico, non il privato o l’avversario in generale, e non dev’essere di necessità moralmente cattivo, esteticamente brutto, economicamente dannoso. Nemico è semplicemente l’altro, il diverso, der Fremde, lo straniero. Qualcuno, anzi qualcosa, un ‘quid’ di esistenzialmente diseguale e diverso da noi uguali. Diverso, dunque, dal fiero e ineffabile Vannacci. E dai suoi corifei politici, a esso lui sodali nella… uguaglianza.
Si consideri, altresì, che, secondo il fascista Schmitt, l’essenza del politico non è la conduzione di guerre sanguinose contro altri uomini, bensì l’utilizzo della guerra come presupposto sempre presente, possibilità reale e immanente, che innerva uno specifico comportamento, appunto politico, di ‘difesa anticipata’. Del resto e non casualmente, i fascismi sono sempre, per propria natura intrinseca, “controrivoluzioni preventive”.
Alla vasta platea dei “bersagli dell’odio e del disprezzo” sembrano rivolte le parole di André Gide, probabilmente ispirate a un’analoga idea di Lucio Anneo Seneca: “È meglio essere odiati per ciò che si è, piuttosto che essere amati per ciò che non si è”.
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