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di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo
Il Falcon 50 noleggiato dal Sisde per Giovanni Falcone e Francesca Morvillo atterra sulla pista di Punta Raisi alle 17.43 di sabato 23 maggio 1992. Antonio Montinaro, caposcorta del giudice, si avvicina al velivolo. Gli altri agenti di scorta della polizia di Stato sono pronti davanti alle tre auto blindate. Falcone e sua moglie scendono dalla scaletta. Giuseppe Costanza apre il cofano e sistema i bagagli. Poi prende posto sul sedile posteriore. Falcone ha deciso di guidare.
Accanto a lui la moglie. Ad aprire il corteo la Fiat Croma marrone guidata da Vito Schifani. Insieme a lui Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. In mezzo, la Croma bianca guidata da Falcone. A seguire la Croma azzurra guidata da Gaspare Cervello, con lui gli agenti Paolo Capuzza e Angelo Corbo. Sono passati solo dieci minuti dall’atterraggio. Le tre auto sfrecciano ad alta velocità sull’autostrada che porta a Palermo. Nessuno dei sette uomini di scorta immagina che le sentinelle di Cosa nostra hanno seguito passo dopo passo i movimenti di Falcone e di sua moglie: dal momento del decollo dall’aeroporto di Ciampino, fino all’arrivo a Punta Raisi. Da quell’istante le vedette continuano a scambiarsi messaggi in codice. Nella seconda auto Giuseppe Costanza chiede a Falcone quando dovrà andare a riprenderlo una volta lasciato a casa. "Lunedì mattina" risponde il magistrato. "Allora, arrivati a casa, cortesemente mi dà le chiavi in modo che posso poi prendere la macchina". Ed è in quell’istante che Falcone sovrappensiero sfila le chiavi dal quadro e le porge all’autista. "Cosa fa? Così ci andiamo ad ammazzare!" replica di scatto Costanza. "Scusi, scusi". Sono le ultime parole di Giovanni Falcone mentre infila di nuovo le chiavi nel quadro.
Mancano cinque chilometri per arrivare a Palermo. Siamo in prossimità dell’uscita di Capaci. Dalla collinetta di fronte all’autostrada, a una distanza di circa cinquecento metri, Antonino Gioè, uomo d’onore della famiglia mafiosa di Altofonte, segue con un potente binocolo le tre auto. È arrivato il momento. "Vai!" grida Gioè a Giovanni Brusca, capo mandamento di San Giuseppe Jato, che regge in mano il telecomando collegato alla carica di esplosivo collocata nel canale di scolo sotto il manto stradale. Cinquecento chili di tritolo collocati in alcuni fusti. Ma nella frazione di secondo in cui Falcone sfila le chiavi dal quadro l’auto rallenta. Giovanni Brusca ha un attimo di disorientamento. "La macchina scese a ottanta-novanta chilometri. Io vedevo, a occhio, che la Croma perdeva velocità. Gioè insisteva con il "vai!", ma io rallentavo, frenavo. Ero come imbalsamato. Al terzo "vai!", azionai il telecomando e successe quello che doveva succedere. Non è che l’esplosione fece “bum”. Avvenne a ripetizione, perché i fustini esplodevano uno dietro l’altro. Sentii “tututum”, “tututum”, “tututum” Onestamente sono rimasto scioccato anch’io". Sono le ore 17.56. L’attacco frontale allo Stato ha inizio. Lo scoppio della bomba colpisce in pieno la prima auto. Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro saltano in aria. I loro resti massacrati restano intrappolati nelle lamiere a cento metri di distanza. La Croma di Falcone si scontra invece contro un muro di terra e di asfalto che si solleva con l’esplosione. L’impatto è violentissimo. Sulla terza Croma Gaspare Cervello vede la morte in faccia. È scioccato. "Dopo la grande esplosione cominciai a vagare accanto al cratere, in autostrada. Impugnai l’arma. Venne un collega, gli intimai: “Fermati o sparo”. E lui: “Sono un collega”. E io: “Fermati o sparo”. La macchina, un ammasso, un impasto. E in quel nulla c’erano gli occhi del giudice. Me ne sono fregato di chiamarlo dottore. Ho mormorato “Giovanni, Giovanni…”. E lui mi guardava. I suoi occhi me li porto dietro di notte e di giorno. Mi seguono, mi accompagnano, sono parte di me". E sono quegli occhi che Gaspare Cervello continua a ricordare mentre la sua voce si incrina. "Lui si è voltato, ma aveva uno sguardo ormai chiuso, abbandonato. Tutto il blocco motore lo aveva addosso. Solo la testa era libera. La dottoressa Morvillo stava chinata in avanti, così come Giuseppe Costanza. C’era un principio di incendio. Lo abbiamo spento. Della macchina dei colleghi non sapevo nulla. Speravo si fossero salvati". L’agente Cervello e i colleghi che viaggiavano con lui sono miracolosamente salvi. Tutto intorno c’è l’inferno. Nonostante la potenza dell’esplosione, Falcone, sua moglie e Giuseppe Costanza sono ancora vivi. Francesca Morvillo ha perso conoscenza, mentre Giovanni Falcone mostra di rispondere con gli occhi agli stimoli del suo agente di scorta. Con l’aiuto dei primi soccorritori li estraggono dall’auto. Per Giovanni Falcone però bisogna attendere l’intervento dei vigili del fuoco, perché è rimasto incastrato fra le lamiere dell’auto. Lo scoppio dei cinquecento chili di tritolo ha formato un cratere di circa quattordici metri di diametro e tre metri e mezzo di profondità. Le altre auto che transitavano in quel momento sono capovolte. I feriti invocano aiuto. Un girone dantesco si presenta davanti agli occhi degli ausiliari medici. Le ambulanze si precipitano verso gli ospedali più vicini.

Il vuoto addosso
Paolo Borsellino è dal suo barbiere in via Riccardo Zandonai. Squilla il cellulare. È Franco Lo Voi, un collega più giovane della Procura. Borsellino ha uno scatto improvviso, ferma il barbiere. "Un attentato a Giovanni, a Giovanni Falcone? Quando, dove, come?" Il giudice corre a piedi verso casa. Sente il mondo crollargli addosso. Ha bisogno di vedere l’amico e fratello. Non ha con sé le chiavi del portone. Suona il campanello. Passa davanti al figlio Manfredi senza dirgli una parola. In casa le altre due figlie Lucia e Fiammetta si rendono immediatamente conto che è successo qualcosa di gravissimo. La moglie Agnese non c’è, è uscita con un’amica. Borsellino si attacca al telefono ma non parla, probabilmente il numero è occupato. Aun certo punto esplode tutta la rabbia. Incontenibile. Si toglie la cinta dai pantaloni, la impugna all’estremità, la sbatte contro un muro e grida disperato, rabbioso: "Un attentato… Giovanni, Giovanni… È ferito, è all’ospedale Civico…". Questione di pochi minuti e Borsellino si fa accompagnare all’ospedale. Lucia lo raggiunge poco dopo. Fiammetta esce a cercare la madre e Manfredi resta a casa per assicurare i contatti tra tutti. Al nosocomio arriva anche Antonio Ingroia, giovane sostituto procuratore, legato a Paolo Borsellino da una profonda amicizia e da un rapporto professionale fin dai tempi della Procura di Marsala. Nella sua mente resta indelebile il ricordo del suo incontro con l’amico e collega. "Lo trovai all’ospedale, appoggiato contro il muro. Il capo chino, il volto stanco. Senza lacrime. Era come… svuotato". Borsellino è appena uscito da una porta a vetri. È come se fosse invecchiato tutto in una volta. Ha raccolto l’ultimo respiro di Giovanni Falcone. La sua voce rivela il vuoto assoluto nel quale è appena precipitato. "È morto così, tra le mie braccia". Lucia scoppia in un pianto a dirotto. Il padre la riprende dicendole di non dare spettacolo. Ma pochi istanti dopo anche lui crolla nello stesso pianto abbracciandosi alla figlia. Dietro di loro arriva il magistrato Alfredo Morvillo, fratello di Francesca. Con Borsellino si conoscono da molti anni. La notizia che anche la moglie di Falcone non ce l’ha fatta arriverà più tardi ma sarà ugualmente straziante. Antonino Caponnetto, il padre del pool antimafia, chiama al telefono Borsellino. Vuole sapere. Si trova ancora a Firenze e si sta preparando per venire a Palermo. "Paolo, come sta Giovanni?" Dall’altro capo del filo Borsellino piange. "Paolo, mi vuoi rispondere? Come sta Giovanni?" "È morto un minuto fa tra le mie braccia". Sono le 19.07. A Caponnetto cade il telefono dalle mani. Ha perso uno dei suoi figli più amati. Nel frattempo l’ospedale è un crocevia di familiari, amici e conoscenti delle vittime e dei feriti. Arrivano anche altri colleghi che si stringono attorno a Paolo Borsellino. Che senza la protezione di Giovanni Falcone diviene inevitabilmente il prossimo obiettivo. Il giudice ne è cosciente e lo sarà sempre di più in quegli ultimi cinquantasette giorni di vita che gli rimarranno. Borsellino è solo. In tarda serata è Antonio Ingroia a riaccompagnarlo a casa. "Raccogliendo financo fra le mie braccia gli ultimi respiri di Giovanni Falcone» dirà successivamente Borsellino «pensai che si trattava di un appuntamento rinviato…". Inizia così il conto alla rovescia.

La percezione della fine
Dal 23 maggio in poi si susseguono una serie di segnali inequivocabili attorno alla figura del giudice. Paolo Borsellino comincia a essere perfettamente consapevole della particolare sovraesposizione in cui si trova. La sua forte apprensione nei confronti dei colleghi si consolida giorno dopo giorno. "Giovanni Falcone era il mio scudo dietro il quale potevo proteggermi. Morto lui, mi sento esposto e adesso sono io che devo fare da scudo nei vostri confronti". Parole che riportano le lancette dell’orologio indietro nel tempo. Il conto alla rovescia è appena iniziato.

La corsa contro il tempo
Così come ai tempi del maxiprocesso, sotto casa di Borsellino torna la ronda dei carabinieri e la zona rimozione. In Prefettura studiano gli appuntamenti fissi del magistrato durante la settimana: Palazzo di Giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac e la visita alla madre in via Mariano D’Amelio. Gli agenti addetti alla sicurezza sollecitano invano l’istituzione di una zona rimozione in quella stessa via. Non verrà mai attuata. Negli anni successivi Caponnetto domanderà a gran voce se il responsabile della sicurezza di Borsellino avesse mai subito sanzioni disciplinari per una simile omissione. Ma la sua domanda rimane a tutt’oggi sospesa. Anche Rita Borsellino ricorderà la sua preoccupazione dopo la strage di Capaci. In quei giorni sarà lei stessa ad avvertire le forze dell’ordine della presenza in via D’Amelio di una macchina abbandonata con i finestrini abbassati. Ma sarà costretta a chiamare tre volte prima che un carro attrezzi porti via la carcassa. La sorella del giudice rammenterà la sua ansia per un cassonetto dell’immondizia lasciato incautamente in via Cilea, in prossimità della casa del fratello. Ma soprattutto ricorderà la risposta severa del giudice ai suoi timori. "Non sono io che devo pensare alla mia sicurezza, c’è chi è addetto a questo compito". Su Paolo Borsellino si viene a formare una pressione imponente. Da una parte la richiesta di giustizia dell’opinione pubblica che ripone in lui una spasmodica aspettativa. Contemporaneamente aumenta la sua sovraesposizione perpetrata dal fronte politico-istituzionale. Borsellino si getta subito a capofitto sulle inchieste che possono avere un collegamento con la strage di Capaci. Riprende in mano la documentazione su alcuni omicidi eccellenti, tra cui il dossier sull’omicidio di Salvo Lima. Rilegge il rapporto del Ros Mafia e appalti. E chiede anche di ripescare dagli archivi i vecchi rapporti sulla Duomo Connection, l’operazione che solo tre anni prima aveva svelato le collusioni tra la mafia corleonese e la politica in Lombardia. Ma non farà in tempo a leggerli. Come sua abitudine, ogni mattina Paolo Borsellino si alza prestissimo. Per tutta la giornata non si stacca un attimo dalle sue carte. Tra una sigaretta e l’altra legge, prende appunti, cerca i collegamenti. E soprattutto ripensa alle conversazioni avute con Falcone, alle sue intuizioni, alle sue confidenze. Che alla luce degli eventi acquisiscono nuovi significati. Ma sente sempre di più che il tempo gli sfugge dalle mani.

*Tratto da: Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino

Foto © Shobha

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